Ci si accorge della differenza tra Shepard Fairey – in arte OBEY – e Banksy già guardando il documentario Exit through the Gift Shop del 2011.
Non è solo una questione di stile, ciò che emerge nel confrontare il lavoro dei due artisti è l’approccio alla comunicazione e la diversità nel veicolare messaggi. Essere uno street artist significa utilizzare muri e spazi pubblici come una tela e questo fenomeno, da sempre legato a ideali di dissenso e denuncia, affonda le radici nell’aerosol art e nel graffitismo americano degli anni Settanta, dove l’obiettivo primario era diffondere e affermare il proprio nome indipendentemente dalla forma espressiva. La provocazione e l’ironia del lavoro politico di Banksy si contrappone all’idea primitiva della street art come pratica artistica del lasciare il proprio segno. Il lavoro di Fairey rientra nell’evoluzione denominata Logo Art dove la firma (tag) dell’artista viene sostituita dal marchio grafico. OBEY nel tempo si è affermato costruendo intorno alla sua arte un brand di successo tra adolescenti e giovani skaters, diventando una marca per abbigliamento e accessori di ogni tipo.
Fairey con la tecnica del “bombing” ha fatto della strada il suo spazio pubblicitario, ha bypassato la critica ottenendo il consenso del pubblico lavorando negli spazi urbani. Autoreferenzialità e business caratterizzano il lavoro di quest’artista che ha fatto della cultura di strada una chiave per accedere a musei e gallerie. In Italia le sue opere sono state esposte grazie all’impegno di Luca Giglio in due occasioni: durante la mostra Passaggio in Italia, a cura di Sabina de Gregori nel 2012 e più recentemente presso il PAN di Napoli con l’esposizione #OBEY a cura di Massimo Sgroi. In entrambi i casi la street art viene decontestualizzata e allestita in uno spazio espositivo ed è naturale chiedersi se un lavoro artistico pensato per dialogare con il tessuto urbano conservi lo stesso valore significante sulle pareti bianche di un museo. OBEY attualmente è un marchio registrato onnipresente sulle opere e nelle didascalie. Il suo lavoro è caratterizzato dall’uso di collage d’impatto e illustrazioni ispirate alle grafiche delle banconote. Eppure trovarsi alla fine della mostra con un bookshop simile ad un negozio di skate fa sì che tutta la ricerca dell’artista cada in un baratro di contraddizioni e controsensi.
Shepard Fairey gioca con il concetto di propaganda promuovendo icone storiche del cinema, della politica e della musica in elaborati grafici didascalici, perfetti per essere riprodotti su una t-shirt. Anche le opere che trasmettono una sorta di riflessione su tematiche importanti come potere, capitalismo, diritti umani e uguaglianza si risolvono in mere speculazioni grafiche di indiscutibile qualità visiva ma ben lontane dall’essere critica di un sistema. La strada ha le sue regole, i suoi codici da rispettare, i suoi valori etici e dissentire significa prendere una posizione chiara, schierarsi. Banksy conserva una coerenza di fondo nel rimanere nell’ombra, lo richiede il suo impegno nell’esprimere una critica dura e sarcastica nei confronti di un sistema che non condivide e con il quale non vuole scendere a compromessi. Questo è dissenso. Il lavoro di Fairey, quando viene portato in galleria e sulle t-shirt, perde la sua carica lirica passando dalla mission della street art al business dello street wear.
«Il logo Obey è infatti un vero e proprio classico dell’abbigliamento contemporaneo, così come lo stile delle elaborate grafiche, come quelle delle t-shirt a manica corta o le famose felpe girocollo logo Obey. Oltre a questi nuovi classici dello streetwear, Graffitishop propone anche una vasta collezione di camicie e giacche dalle linee curate e dai materiali ricercati e un’ampia scelta di cappellini Obey e accessori con stampe e tessuti sempre freschi e pregiati, per vestire lo stile Obey a 360°. Capace di evolversi e crescere assieme al gusto dei suoi sostenitori, Obey è oggi il marchio che non può mancare a chi vuole essere due passi avanti.»
Cosa accade quindi all’arte di strada quando le togli la strada? Nel caso di OBEY sembra rimanere solo il lavoro di un ottimo illustratore, un’interessante strategia imprenditoriale e molto merchandising d’autore che fanno del suo nome una ricercata marca d’abbigliamento. Dello street artist resta solo il ricordo delle origini e una case history da inserire nei futuri libri di brand design.
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