C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove a noi appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Dalla riattualizzazazione del testo di Walter Benjamin, Okwui Enwezor parte per la creazione del suo progetto per la 56a edizione della Biennale di Venezia.
Al cospetto di crisi profonde che mettono in discussione l’ordinamento vigente della realtà e costringono a confrontarsi con il fallimento di interi sistemi ai quali fino a quel momento ci si era affidati senza riserve, chi è privo di una rigorosa capacità di pensiero e di una ferma consapevolezza critica, è portato ad arretrare e a considerare come soluzione valida il ripristino di condizioni precedenti, il cui ricordo sbiadito le presenta come rassicuranti.
Poco tempo fa un noto curatore italiano ha sostenuto che l’arte contemporanea è ormai giunta al capolinea. Ad essa seguirebbe un ritorno alla tradizione orale, ad una forma d’arte arcaica e premoderna.
È inutile dire che strategie del genere sono inevitabilmente votate al fallimento. Per quanto possa sembrare sconveniente citare Stalin, la massima, non un passo indietro, continua a mantenere tutta la sua efficacia. La storia ci ha insegnato che in determinate condizioni, nonostante le difficoltà a proseguire possano sembrare insormontabili, la via d’uscita dall’empasse, è sempre in avanti. Senza perdere di vista le macerie prodotte dalle catastrofi della contemporaneità, Enwezor compie uno scatto in avanti e si spinge al di là, verso gli All World’s Futures che danno il nome alla 56a edizione della Biennale di Venezia.
Tentando di forzare il blocco storico creatosi con la crisi degli ultimi anni e con l’obbiettivo di scuotere dalle fondamenta il mondo dell’arte, il curatore nigeriano scaglia due enormi macigni intellettuali: le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin e Il Capitale di Karl Marx, opere focalizzate sul fenomeno della crisi, entrambe motori di processi progressisti e rivoluzionari.
L’espressione All World’s Futures lascia intendere chiaramente la volontà di affrontare il tema del futuro non in maniera vaga o retorica, ma nelle sue molteplici determinazioni.
All World’s Futures è presentato da Enwezor come un progetto complesso e articolato:
al posto di un unico tema onnicomprensivo che racchiuda e incapsuli diverse forme e pratiche in un campo visivo unificato, All the World’s Futures è permeato da uno strato di Filtri sovrapposti. Questi Filtri sono una costellazione di parametri che circoscrivono le molteplici idee che verranno trattate per immaginare e realizzare una diversità di pratiche.
L’intenzione di realizzare una Biennale “sovversiva” è evidente. C’è da sperare che il terremoto promesso da Enwezor avvenga e possa contribuire a liberare energie per troppi anni schiacciate sotto il peso delle macerie della storia.