Otto was an architect, visionary, utopian, ecologist, pioneer of lightweight materials, protector of natural resources and a generous collaborator with architects, engineers, and biologists, among others.
Pritzker Prize committee
Frei Otto è scomparso da poco, appena prima di poter ricevere ufficialmente il premio Pritzker. La sua innovazione, in qualche modo influenzata dal legame con il volo -come ha ricordato Norman Foster- è stata quella di distaccarsi dalla tradizione architettonica germanica degli anni ’30 e ’40, massiva e monumentale, optando invece per l’elaborazione di strutture leggere, ‘ecologiche’ ed efficienti. Per non dimenticarne la preziosa lezione, Artwort ha deciso di riportare un suo progetto visionario, e non utopico, secondo una precisa presa di posizione dello stesso progettista.
Arctic City è una proposta risalente al 1971, sviluppata in collaborazione con Kenzo Tange, Ewald Bubner e lo studio Ove Arup & Partners, per conto dell’impresa chimica tedesca Hoechst AG. La sua funzione principale, in linea con altri studi condotti all’epoca, era quella di creare un’infrastruttura colossale per permettere l’insediamento in un ambiente ostile come l’Artico, e di supportarne il conseguente sfruttamento minerario ed energetico. Il progetto, realizzato come studio di fattibilità, prevedeva la costruzione di un’enorme cupola pneumatica, con un raggio di 2 km, che avrebbe potuto ospitare fino a 40 000 abitanti.
Per quanto gli aspetti strettamente architettonici fossero rimasti ad un livello molto sommario, oggetto di studi più approfonditi fu l’impianto urbano generale. La localizzazione sarebbe dovuta essere la foce di un fiume, per permetterne il collegamento via nave, oltre che aereo; il processo costruttivo presupponeva una prima fase di costruzione delle fondamenta, su cui innestare poi una rete di cavi per sostenere la membrana di copertura, e, una volta gonfiata questa, procedere alla costruzione del tessuto urbano vero e proprio; l’auto-sostentamento energetico era ovviamente indispensabile, e sarebbe stato raggiunto grazie all’energia nucleare, all’epoca vista come un’alternativa sostenibile al petrolio; infine, l’assetto urbanistico era stato basato su modelli diffusi all’epoca, dando vita ad una specie di New Town polare o una Brasilia artica.
Agli occhi di uno osservatore contemporaneo, un tale progetto può apparire un tentativo ingenuo, in aperta contraddizione con quei principi olistici ed ecologici che Otto professava. Da un altro punto di vista, tuttavia, Arctic City rispecchia lo spirito dell’epoca, nella quale l’innovazione tecnologica appariva come uno strumento fondamentale per la salvaguardia di un ecosistema minacciato. La bolla immaginata dall’architetto tedesco, infatti, voleva essere un involucro resiliente, in risposta alla crisi ambientale e ai mutamenti climatici ormai evidenti, per la preservazione dell’abitabilità e la conservazione di una porzione di sistema naturale.
Il progetto fu abbandonato, ma Otto Frei non ha mai smesso di sperimentare. Le sue ricerche hanno aperto la strada, tutta contemporanea, alla liberazione dell’architettura da quell’inutile pesantezza che su di essa ha a lungo gravato.
The secret, I think, of the future is not doing too much. All architects have the tendency to do too much.
Frei Otto