Il design Giapponese, una realtà con cui il mondo ha imparato a confrontarsi da tempo, sta crescendo oramai in modo esponenziale. La purezza delle linee, l’essenzialità dell’estetica, l’idea di un pensiero complesso che si traduce in un oggetto semplice, questi sono i cardini di cui si fanno ambasciatori i loro esponenti da decadi, muovendosi sulla scena mondiale e dettando le leggi del nuovo modo di fare design e di venderlo.
Siamo nel 1980, Kazuko Koike e Ikko Tanaka partoriscono l’idea di una catena di negozi che si chiamerà Muji, un’azienda multinazionale che si occuperà di capi di abbigliamento, complementi di arredo e accessori da viaggio, che sovvertirà ogni modo di produrre, presentare e vendere. Il nome, usato dal 1999, deriva dalla frase “Mujirushi Ryōhin“, che in giapponese significa “buoni prodotti senza marchio”. Infatti la particolarità del pensiero di cui la Muji si fa ambasciatrice è la filosofia del no brand, che attecchisce tra la clientela che acquista solo prodotti senza marchio per delle ragioni estetiche, ma soprattutto concettuali.
«Portare un senso di calma nella vita caotica dei giorni nostri»
ecco la politica aziendale che segue la filosofia del kaketsu, secondo il presidente di Muji USA, Hiroyoshi Azami.
In una società dedita al consumismo, che tende ad essere sempre più rapita dalla complessità del packaging che contiene l’oggetto -piuttosto che dall’oggetto stesso-, Muji si pone in un punto cruciale: tra la funzionalità e l’armonia estetica ma senza fronzoli ed esagerazioni. Il design dei prodotti viene ridotto al minimo, i colori sono limitati, non ci sono simboli che li rappresentano, non c’è imballaggio, i prodotti vengono esposti sugli scaffali a vista, presentandosi da soli con la sola indicazione del prezzo e dei dati utili.Muji rappresenta un modo di fare e di pensare che non si abbassa a stereotipi e che punta all’efficienza. La semplicità della sua produzione non si impone come assenza di stile, ma come un nuovo stile di vita.