“Le radici della violenza risiedono spesso precisamente nei discorsi che dichiarano apertamente di voler ridurre o escludere la violenza”, afferma nella raccolta di saggi Architecture and Violence Bechir Kenzari, il quale sottolinea come qualsiasi luogo, considerato anche in qualità di cellula elementare, di “stanza”, possa costituire una violazione del sito, aprirsi all’invasione segreta del terrore, a scapito del suo compito primordiale, quello di fungere da riparo, di pretendere di offrire estrema sicurezza. Si potrebbe aggiungere che lo stesso atto del costruire, generalmente inteso con un’accezione positiva, costituisca in realtà di per sé una serie di azioni “violente”, che stravolgono un luogo.
Non meraviglia dunque che l’espressione della violenza si rifletta spesso in un'”animosità” indirizzata contro l’architettura, nell’urgenza di cancellare i luoghi e tutto ciò che essi implicano: i monumenti, la storia, l’ambiente e quant’altro fa da contenitore alla vita sociale, culturale e politica stessa, come esplicitato dal celebre imperativo catoniano: Carthago delenda est, l’intera città di Cartagine deve essere distrutta.
La “Quarantaine” (o Karantina) è un’area nei pressi delle porte di Beirut storicamente associata a vicende non propizie. Durante il protettorato francese era destinata ad accogliere gli immigrati in quarantena. Diventato successivamente un campo profughi occupato da quasi 20 000 tra rifugiati Palestinesi, Curdi e del Libano meridionale, fu completamente raso al suolo nel gennaio del 1976 da una milizia locale, a qualche mese dallo scoppio della guerra civile, nell’ambito di un’operazione di pulizia etnica.
Nel 1998, a pochi anni dalla fine della guerra, vi fu realizzata una discoteca dall’allora poco meno che trentenne architetto beirutino Bernard Khoury. B 018 allude al codice segreto dell’appartamento dove Nagi Gebrane, musicista nonché proprietario e ideatore del venue, organizzava feste durante la guerra. A distanza di vent’anni, le ferite impresse dalla guerra erano ancora ben visibili sull’area, pressoché vuota rispetto ai quartieri densamente popolati nelle immediate vicinanze, al di là della strada a scorrimento veloce che li separa.
Innanzitutto, il progetto reagisce polemicamente all’ingenua amnesia della ricostruzione post-bellica intrapresa dal governo: ad una damnatio memoriae espressa nella negazione dei segni incisi dal conflitto si oppone la scelta di interrare il fabbricato. Piuttosto che imporre una presenza emergente, assieme all’inevitabile retorica che un monumento comporta, viene messa in atto un’affermazione minimalista, una “negazione dell’edificio”. Ciò che appare dall’esterno è un semplice marchio sul terreno, costituito dal complesso apparato in acciaio della copertura decappottabile, che lo fa sembrare una specie di portaerei, un bunker, o uno strano ordigno militare. La piattaforma rettangolare è circondata da una spianata circolare di cemento a sua volta circoscritta da una corsia carrabile che distribuisce le automobili nell’anello che funge da parcheggio. La pianta circolare dell’impianto, la presenza leggermente rialzata di qualcosa che è chiaramente sotto terra, la severità del lotto urbano rimasto praticamente spoglio, rievocano l’immagine di un tumulo o di un luogo di sepoltura: già Adolf Loos in Architettura sottolineava questo legame tra architettura e morte, notando come architettura possa essere anche un semplice cumulo di terreno di determinate dimensioni, incappando nel quale si percepisce automaticamente una sensazione cupa, mentre ci balena in testa che “Qualcuno è sepolto lì”. Per George Bataille, d’altronde, i luoghi di sepoltura sono la concreta espressione dell’ansia umana, l’erotico e la consapevolezza della morte sono quanto delimita la differenza tra umano e animale:
“(…) l’oggetto di riso e l’oggetto di lacrime sono sempre legati a una qualche violenza che interrompe l’ordine regolare delle cose, il corso usuale degli eventi.”
(George Bataille, Le Lacrime di Eros)
Ma ciò che crea scompiglio, che “violenta” e interrompe l’ordine del mondo è la trasgressione. Trasgressione che qui ritroviamo su due livelli: il primo è quello della struttura, che occupa un’area di morte e a sua volta incorpora l’idea di morte; il secondo è la trasgressione dell’underground, della nightlife stessa che anima il B 018, la discoteca più cool di Beirut. L’idea di morte si confronta inevitabilmente con l’idea di eros: la trasgressione come spirito dionisiaco indica il più puro, superficiale, istintivo impulso alla vita. La didascalia sul sito dell’architetto descrive lo stesso club come “a place for nocturnal survival”: la consapevolezza della morte, la paura tangibile che il giorno che viviamo possa essere l’ultimo, risveglia l’ineluttabile desiderio di vita. “Facevamo le migliori feste, durante la guerra”, afferma lo stesso Khoury, alludendo all’attività dell’appartamento da cui il locale prende nome.
Il teatrino della vita e della morte o, più semplicemente, quello della superficialità (sotto terra), dello svago, delle apparenze, inizia nell’oscurità, quando il traffico continuo di automobili sulla pista ravvivano il parcheggio e diventano parte integrante dello scenario della discoteca: chi arriva in Ferrari la parcheggia in bella mostra, quelli con una macchina brutta la nascondono sul retro. “L’animal se reveille la nuit”, l’animale si sveglia la notte, solleva i pannelli che gli fanno da copertura ed offre al visitatore il suo ventre addobbato di tende rosse, come il colore del sangue, della sessualità, della prostituzione, ma anche del sacro. Gli avventori accedono dal lato sud attraverso una rampa di scale in asse con la struttura, come se stessero scendendo in una cripta. La pianta, semplice e rettangolare, per alcuni può ricordare quella di una basilica, con un asse centrale, una navata e un bar in corrispondenza dell’altare. La sala è arredata a sua volta da ulteriori altarini, un set di tavolini da bar pieghevoli, disposti in fila con una scansione rigida e dotati ciascuno dell’icona di un musicista decorata con fiori: il rimando all’architettura cimiteriale non può essere più esplicito di così. Da questo antro infernale si genera infine l’atto di tensione e ricongiungimento verso l’axis mundi del cielo, attraverso il sollevamento dell’unica apertura presente, il tetto, rivestito di specchi che a loro volta riflettono all’esterno ciò che succede all’interno, denunciando finalmente la presenza di ciò che è stato nascosto sotto terra.
Al di là delle numerose interpretazioni che se ne sono fatte e che se ne possono fare, Elie Haddad ‒ nel sopracitato Architecture and Violence ‒ sottolinea come in realtà Bernard Khoury presenti di solito questo progetto minimizzandone i contenuti simbolici, concentrandosi esclusivamente su quelle che sono le sue caratteristiche tecniche e logistiche. Tirandosi fuori da qualsiasi interpretazione simbolica a priori dell’edificio, l’autore ricalca in fondo la banalità stessa dell’architettura: banale come è banale l’insorgenza del male, secondo Hannah Arendt; banale come trasmettere la memoria di un luogo di morte trasformandolo in un tempio del divertimento; banale perché in fondo le elucubrazioni filosofiche servono a poco, se un progetto non funziona, o comunque difficilmente sarà questo ciò che gli utenti ne apprezzeranno; banale come altrettanto banalmente, dopo la morte, dopo gli attentati, dopo la guerra, la vita va avanti.