Un orologio di ghiaccio da cento tonnellate si sta sciogliendo in queste ore a Place du Pantheon a Parigi: dodici iceberg disposti in circolo scandiscono inesorabili il passare del tempo e concretizzano con la loro presenza, ma ancor più con la loro assenza non appena si saranno sciolti, gli effetti del cambiamento climatico. Ice Watch è il titolo dell’ultima installazione pubblica di Olafur Eliasson, appena realizzata in occasione della conferenza sul clima di Parigi replicando l’idea di Ice Watch Copenhagen. Orologio in decomposizione, l’opera d’arte era pensata per durare un paio di settimane ma già mostra i segni del tempo trascorso e dello scioglimento, vanificando brevemente il lungo e faticoso percorso che l’ha portata fino a qui. Durante i primi giorni di ottobre una nave comandata dall’ex primo ministro della Groenlandia salpa dal porto di Nuuk alla ricerca di un tipo particolare di iceberg composto da strati compressi di nevi risalenti a migliaia di anni fa e staccatisi dai ghiacciai. Il ghiaccio selezionato, trainato via nave fino a Copenhagen, è stato quindi trasportato via camion fino al sito prescelto a Parigi, dove ha iniziato a spogliarsi via via degli strati più superficiali liberando le minuscole bolle di aria intrappolata tra i fiocchi di neve caduti secoli fa.
Per questo Eliasson ama ripetere che la vera opera d’arte qui non si sviluppa dove sembrerebbe, lungo la circonferenza, ma si trovi piuttosto nello spazio contenuto al suo interno, dove le persone si riuniscono, passano attraversano l’opera e possono comprenderne il messaggio e le ambizioni. In un mondo dove tutti siamo sempre più informati su come sono le cose, tempestati di immagini, si perde spesso il contatto con le sensazioni, su come le cose ci fanno invece sentire: vedere una fotografia di un iceberg alla deriva in qualche lontana latitudine o percepirne lo scioglimento e l’occorrere delle fratture interne sono in realtà due sensazioni di intensità profondamente differente. Avvicinando l’orecchio al ghiaccio umido, di quando in quando si sente un rumore, una spaccatura, una bolla che si apre liberando l’aria più pura che esista, un’aria che ha viaggiato fino a Parigi dall’estremo Nord. Un’aria che ha viaggiato quindicimila anni per raccontarci la storia del cambiamento climatico.Marco Ferrari
Laureato in architettura ma interessato a qualsiasi altra cosa, ha frainteso la formazione come una scusa per spostarsi dalla Aarhus School of Architecture al Giappone di Sou Fujimoto, dal Cile della tesi all'India di Studio Mumbai. Ha lavorato per Dorte Mandrup, Cassina e Spaces like Actions.