L’annosa questione del degrado delle periferie non smette mai di avere un ruolo centrale nel dibattito contemporaneo, accompagnando da oltre cinquant’anni la storia moderna delle città.
In Italia il dibattito sulla periferia nasce dalla soluzione dell’emergenza abitativa concretizzatasi nel piano INA casa dei primi anni ’50, in cui l’idea nobile per creare socialità si fondava sui modelli insediativi del passato, e si conclude con il riconoscimento della strategia del “rammendo” come risposta al dilagante magma edilizio degli ultimi sessant’anni.
Ma prima d’intrappolarsi tra i cinismi o i buonismi dell’opinione, occorrerebbe osservare la storia delle periferie provando a sospendere il giudizio di un’immagine costruita a priori. Intraprendendo un approccio empirico, il cinema è stato più efficace di molti interventi di riqualificazione, sfruttando il vantaggio congenito di muoversi sul sottile filo che divide la realtà dalla rappresentazione del fenomeno. La creatività interseca il mondo reale e quello della rappresentazione al punto da renderne chiaro il prodotto contraddittorio della loro interazione.
Alcune pellicole hanno colto il problema di una periferia che perde la sua accezione di spazio fisico per trasformarsi in spazio concettuale, esprimendo, per certi versi, la condizione umana. Sono stati scelti alcuni film che danno letture trasversali sul tema. Essi mostrano come la definizione di periferia sia una questione percettiva.
La periferia come un invito all’esplorazione: Caro Diario, Nanni Moretti (1993)
Il regista romano concretizza, all’interno di “In vespa”, il primo capitolo del suo diario, l’aspirazione di realizzare un “film fatto solo di case”. Ma Caro Diario non è solo questo: è l’idea che lo spazio incerto, filamentoso della periferia romana vada innanzitutto percorso, attraversato e soprattutto verificato rispetto alle aprioristiche definizioni dei media e dell’opinione comune. In questo senso è emblematica la scena in cui il protagonista arriva a Spinaceto, “un quartiere inserito nei discorsi per parlarne male”; ma alla fine del suo percorso arriva a convenire con un passante che ” il quartiere non è per niente male”, a dimostrare quanto la periferia soffra di un forte pregiudizio.
L’autore percorre questi quartieri nel caldo torrido d’agosto a Roma, in vespa, quasi fosse questo il punto di vista ottimale per osservare e scoprire gli sterminati agglomerati di case, guardati dal centro del manto stradale. Da questa prospettiva il protagonista prova a immaginare, attraverso gli odori, la vita degli abitanti di quartiere, occlusa e nascosta dietro le facciate ossessivamente ripetitive. Questo capitolo del film è quindi un invito all’intima appropriazione dei luoghi della città, un tentativo di proiettare se stessi nelle mille sfaccettature della periferia e in qualche modo ritrovarcisi.
La periferia come luogo della creatività collettiva: Miracolo a Milano, Vittorio De Sica (1951)
Gli anni che ci separano dalla realizzazione di questa pellicola, fanno apparire quanto meno favolistica l’atmosfera che il regista dipinge in una grigia e piovosa periferia milanese degli anni ’50. Quelli che oggi ci appaiono come luoghi saturati dalla spregiudicata attività edilizia, sono in questo film ancora brani di campagna, degli spazi tutti da inventare e dove scoprire nuove forme insediative e sociali. E’ infatti una sorta di villaggio urbano realizzato con materiali edili di fortuna quello che Totò, protagonista e prodotto della povertà di quegli anni, prova a realizzare in sodalizio con altri vagabondi della sua stessa estrazione sociale.
Con il motto “fantasia al potere”, i personaggi mostrano un’immagine ideale di quello che potrebbe essere un qualsiasi slum contemporaneo, dove anche dare un nome a una strada è motivo di puro divertimento. Alimentato dalla emergenza abitativa, che diventerà uno dei leit- motiv del post guerra, il campo diventa un fertile laboratorio dell’arte di arrangiarsi. Una surreale contrapposizione alle spietate logiche della speculazione che di lì a qualche anno sarebbero diventate dilaganti e che vengono qui profeticamente annunciate.
A distanza di più di sessant’anni viene da chiedersi se sia possibile recuperare quello spirito creativo collettivo nell’approccio all’urbano, che nel film sembra addirittura potenziarsi in una condizione di estrema necessità.
La periferia come condizione esistenziale: Canicola, Ulrich Seidl (2001)
Il film Canicola ci proietta all’interno del sobborgo viennese, tanto generico da poter essere assimilato a quello di una città qualsiasi. In una rappresentazione, in chiave iper-reale, della condizione della periferia contemporanea nel modello americano: un proliferare di villette intervallate da un tessuto industriale polverizzato, grandi bretelle autostradali e shopping mall. Le riprese si focalizzano sulla vita dei tumefatti abitanti con una precisa dicotomia: un formicaio di auto che si accalcano attorno alla socialità scenica e apparente dei centri commerciali attraverso percorsi lineari che condannano al consumo sfrenato; le abitazioni, in cui ogni abitante si rintana nella propria perversa alienazione e schizofrenia, al riparo da ogni contatto con l’altro. Le case sono luoghi dotati di un’ordine apparente, visibile nella cura del verde privato che si tramuta, all’interno, in uno spazio aggressivo e selvaggio nel kitsch nelle finiture interne.
Il quadro complessivo che ne vien fuori è quello di una periferia cinica, votata all’individualismo più spinto. Il sistema che alimenta il conflitto non è tanto causa di uno squilibrio sociale, quanto una condizione esistenziale drammatica, generata da un profondo senso di solitudine.