Serge Najjar non è un fotografo. Nato a Beirut, avvocato di formazione, inizia ad interessarsi alla fotografia poco più di quattro anni fa. Quello rappresentato dai suoi scatti è un Libano inaspettato, che difficilmente indovineremmo come tale osservando le sue foto, sulla base delle – poche – immagini del paese alle quali siamo normalmente abituati dai media. L’interesse di Najjar è infatti improntato prettamente all’architettura, manipolata attraverso l’immagine in maniera da risultare astratta, appiattita nelle sue tre dimensioni. Nonostante l’autore abbia iniziato ad interessarsi del mezzo fotografico da autodidatta, le sue composizioni non nascono dalla fortuita intuizione dell’amatore che s’improvvisa artista: esplicitano riferimenti propri di un conoscitore dell’arte moderna e transavanguardistica, tanto nella costruzione delle immagini quanto nei riferimenti citati in diversi titoli dei suoi scatti.
Serge Najjar non è certamente il primo che si avvicina ad un supporto di espressione creativa grazie ai mezzi che la tecnologia rende diffusamente disponibili. Va ribadito che non tutti sono capaci di utilizzare questi strumenti con la stessa intelligenza e gli stessi risultati, affidandosi ad un’idea chiara e comunicativa. Questa idea, per Najjar, è rappresentata dalla passione quasi ossessiva per un’architettura raffigurata nel dettaglio, tagliata inquadrando poche linee che la astraggono dal contesto fisico, restituendola come una scenografia della vita umana, come un fittizio supporto bidimensionale che potrebbe potenzialmente trovarsi in qualsiasi posto del mondo. Al di là della reale Beirut che le fa da scenario.
Tutto comincia con la fotocamera di uno smartphone e un account Instagram: in breve tempo l’account guadagna un notevole successo di followers, Serge viene contattato dal direttore della piattaforma per un’intervista e da una galleria per un’esposizione. “Ero completamente perso. Sono stato educato all’arte da un padre appassionato di pittura, ma non mi credevo capace di creare. Si è aperta una finestra di fronte a quell’essere che sonnecchiava in me”, spiega l’autore, che ad oggi ha partecipato a diverse esposizioni, anche in Francia, ed è rappresentato da Tanit, una galleria tedesca con una sede a Beirut. Successivamente è iscritto – a sua insaputa – ad un corso di fotografia, sperimenta altre tecniche, si avvicina all’analogico ed impara a sviluppare e stampare autonomamente i suoi scatti. La composizione delle foto resta però tarata sul quadrato di Instagram, lo stesso col quale era partito e per il quale abbiamo ormai maturato – indipendentemente dai suoi lavori – un’inevitabile abitudine estetica. Najjar sottolinea come non intenda fare di questo il suo mestiere, per paura di perdere quella passione accesa dedicandosi ad un’attività per puro diletto:
Se ne vivessi, forse perderei un po’ della mia libertà
Così ogni weekend questo appassionato della fotografia monta in macchina, vagando come un flâneur senza meta precisa nei luoghi meno battuti dei dintorni di Beirut, alla ricerca dell’architettura ideale e dello scatto perfetto, giocando sulle forme, sui materiali e sulle ombre. In ogni sua foto c’è sempre un essere umano, unico elemento che dona calore alla rigida geometria immortalata e che restituisce all’edificio il senso di scala e quello di profondità persi nella composizione. In genere, trovato un luogo che lo ispira, si ferma ed aspetta che qualcuno faccia qualcosa. Se ciò non succede prova ad interpellare egli stesso i passanti, domandandogli di passare davanti all’obbiettivo: è per esempio il caso di Raining Shadows, per la quale ha fermato un uomo e gli ha chiesto di correre con un ombrello aperto, in pieno sole. Non di rado gli capita di dover rassicurare gli abitanti di non essere né un terrorista né una spia, come molti sono portati a pensare scrutandone la macchina fotografica:
È il lato ludico della fotografia quello che mi piace; si è già parlato abbastanza di guerra e di cose negative, guardiamo al nostro paese con un piccolo sorriso.