Sono passati circa vent’anni dalla celebre mostra itinerante intitolata Sensation, con la quale Charles Saatchi presentava al mondo nel 1997, dall’Europa agli Stati Uniti, i lavori più significativi e provocatori di quel poliedrico gruppo di artisti ormai noto ai più con il nome di Young British Artists.
Seppur figli di esperienze umane profondamente divergenti, segnate da una propria, individualissima, visione del reale, Damien Hirst, Tracey Emin, Sarah Lucas, i fratelli Chapman, Chris Ofili, Marc Quinn, Gavin Turk, Gary Hume – per citarne solo alcuni – costituiscono l’esempio di gruppo artistico più riuscito nella scena culturale inglese: una curiosa eccezione, forse, all’interno dell’individualistico parterre dell’arte alla fine del XX secolo.
In principio fu Damien Hirst e la sua dirompente personalità. Cresciuto nello Yorkshire operaio, tra educazione cattolica e vinili dei Sex Pistols, tra un arresto per taccheggio e l’altro, Hirst eccelle solo nel disegno. E dalla periferia al centro, dal lavoro nei cantieri londinesi al Goldsmith College, si stava compiendo la sua rivoluzione, cavalcando l’onda di un mondo in trasformazione.
Capofila degli youngbrit, Damien Hirst, come un vero self made man, fu in effetti ideatore e promotore della prima mostra della gruppo, intitolata Freeze e svoltasi a Londra nel 1988. Gli ex uffici portuali della London Docklands Development Corporation ospitarono l’ambizioso frutto dell’intuito di Hirst, in questo caso, come in molti altri, curatore oltre che artista in mostra. Con Freeze, come in una ben congeniata pratica iniziatica, si esponevano opere dello stesso Damien e di sedici, tra gli altri, dei suoi compagni del Goldsmiths College quali Mat Collishaw, Angus Fairhurst e Gary Hume. L’obiettivo doveva essere stupire, colpire nel segno, in una parola, congelare.
Il momento era quello giusto e gli astri nascenti dell’arte inglese l’avevano capito. Anche il caso fece la sua parte e l’incendio scoppiato poco lontano, colpendo un caseggiato, sembrò a Gary Hume un presagio e, come lui stesso affermò, “una torcia accesa per la nostra mostra”. La comune formazione presso uno dei college più prestigiosi di Londra aveva contribuito a strutturare il loro assetto collettivo e un nuovo, inedito linguaggio stava per impattare sulla tradizione artistica britannica, catalizzando l’attenzione di tutto il sistema dell’arte contemporanea.
Questi giovani artisti erano goliardici provocatori bisognosi di esplodere, come meteoriti in rotta di collisione con la terra.
Da allora il gruppo riuscì a mantenere salda la propria immagine, andando a costituire un fenomeno che andava ben oltre le peculiarità espressive di ognuno dei suoi componenti e ciò fu sostanzialmente garantito dall’intervento di agenti esterni che curarono attentamente questo promettente fenomeno artistico, sino a patrocinarne la stessa esistenza.
La lungimiranza del pubblicitario e collezionista Charles Saatchi fu uno degli elementi più determinanti del successo degli YBA. Dopo l’apertura della sua galleria nel 1985 a Boundary Road, Saatchi si dedicò alla sistematica raccolta delle opere degli artisti più promettenti presenti nel parterre londinese includendo, all’interno della sua collezione, quelle del gruppo. La strada era ormai aperta per il successo e la dirompente forza di questi giovani interpreti si tramutò presto in uno dei fenomeni più eclatanti della storia dell’arte e, ancora più propriamente, della storia del mercato dell’arte. Alla visibilità garantita da Saatchi, si univa l’imprescindibile dato provocatorio di gran parte delle loro opere – spesso frutto di riflessioni su tematiche attuali e scottanti – in una dimensione di goliardica spregiudicatezza.
E così gli Young British Artists non furono più solo degli intraprendenti studenti di accademia, divenendo delle star e quella sigla sarebbe diventata, da allora, la garanzia del loro successo.
Gli anni ‘90 avevano portato con sé le conseguenze delle nuove politiche mondiali. I conflitti etnici e le crisi locali nell’area dei Balcani, la caduta dei regimi nell’est dell’Europa e l’avanzamento di nuove economie, stavano rimodellando il panorama culturale, contribuendo a una sua repentina trasformazione in senso multiculturale. Non più un centro ma più centri, continuamente moltiplicati dalla velocità esponenziale dei sistemi di comunicazione e dell’informazione. Il web era diventato il non luogo dove il mondo poteva incontrarsi e alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dalla scienza iniziava a corrispondere un inevitabile spaesamento dell’individuo, sempre più fluttuante, all’interno della grande, e ormai inevitabilmente globalizzata, società dell’ultimo decennio del Novecento.
L’arte accolse tutti questi sconvolgimenti declinandoli in un nevrotico plurilinguismo, in continua dialettica con le nuove problematiche sociali, portando alle estreme conseguenze il carattere eclettico e polimorfo delle arti visive così come iniziato durante il decennio precedente.
Memori dell’arte minimal e concettuale degli anni precedenti, gli Young British Artists si fecero portatori di questo eclettismo, muovendosi attraverso tutte le possibilità espressive, con opere di raggelante impatto, aggressive nella loro volontà comunicativa, riflesso di una posizione spesso causticamente cinica nei confronti della società. Stupire, terrorizzare, disgustare, attraverso l’utilizzo disinvolto di ogni linguaggio artistico, in un turbine di disarmonica armonia con le tendenze sociali del presente. Scontrarsi con l’evidenza del reale, tanto più terrificante quando è la lente dell’arte a ingrandirla per noi, costringendoci a farci i conti.
Parcellizzare la vita, osservarla dal basso della sua verità, metterne a fuoco ogni pezzo, per giungere dal particolare all’universale. In 15 scatti fotografici del 1988 Mat Collishaw ci racconta la morte, intitolandola Bullet Hole. Opera ispiratrice della mostra Freeze e più in generale dell’etica degli YBA, questa semplice immagine scomposta, tratta da un testo di patologia, gioca sulla perdita della distanza visiva, utilizzando l’ingrandimento come mezzo di destabilizzazione cognitiva. Ciò che guardiamo è in prima istanza un insieme astratto: è la distanza che ci serve per percepirne i contorni e quindi il senso, il suo significato.
Una fessura, un varco, un’immagine che diviene sempre più chiara sino alla sua rivelazione: una ferita alla testa. L’immagine ferma, fissa, congela in una sineddoche visiva in cui è la causa del dolore, la sua traccia più detestabile, a diventare oggetto di sconcerto. Può la paralizzante immediatezza delle nostre paure o peggio della morte, generare poesia, creare un contatto arcano tra la nostra sensibilità e ciò che è, apparentemente, repulsivo, orrorifico? Nella sua ormai lunga carriera, Mat Collishaw ha riflettuto su questo e sulle possibilità di bellezza nella dimensione dell’ambiguità, sino a creare un alone quasi perturbante attorno alle sue opere.
Un artista schivo, minimamente mediatico Collishaw, lontano dallo star system, quasi l’antitesi del fenomenale Hirst, che ha fatto delle sue opere, oltre che della sua persona, oggetto di celebrazione – quanto di odio – massificato.
“Bene o male, purché se ne parli” e purché le sue opere vengano battute per decine di milioni di euro.
Il cinico e spregiudicato rapporto di Hirst con il denaro, la leggerezza con cui si muove attraverso i canali mediatici fagocitandoli, la spregiudicata autopromozione, fanno di lui un’icona del nostro tempo, oltre che un’icona dell’arte.
E così le sue opere, totem orrorifici di morte, si trasformano in oggetti vittime di una sconsiderata dialettica, continuamente oscillante tra adorazione e rifiuto.
Orde di compratori e collezionisti, file interminabili ovunque Hirst si esponga e venga esposto. E il motivo è nella sussistenza stessa della presenza mediatica dell’artista. Eppure, da Pharmacy alla serie di cadaveri animali in formaldeide, sino a For the Love of God, ciò che vediamo altro non è che l’aspetto più disincantato della morte, le nostre dipendenze, la lenta putrefazione di un sistema di valori che Hirst condanna e alimenta allo stesso tempo, che lo si voglia no, con destabilizzante non chalance.
A Thousand Years, del 1991, ci pone senza filtri di fronte al senso stesso dell’esistenza, al ciclo arcano della vita e della morte, tanto naturale quanto difficile da accettare, quasi impossibile da guardare quando rappresentato con così tanta e spietata evidenza. Una grande teca di vetro, memore delle composizioni pittoriche di Francis Bacon, è divisa in due parti comunicanti tra loro tramite quattro fori: da una parte la testa mozzata di una mucca in stato di decomposizione, dall’altra mosche vive che si cibano di acqua e zucchero. La possibilità è duplice: una volta oltrepassato il varco, giungere alla testa dell’animale o morire a causa di un elettroinsetticida installato all’interno; “Each part of a pair has its own life, independent of the other, but they live together” (D. Hirst). Due facce della stessa medaglia, due strade, vita o morte, in esse mai concluse, legate da un rapporto di continuità ciclica. Migliaia di anni simbolicamente espressi attraverso la loro sintesi più banale, la loro forma più semplice. La vita di questi insetti, l’infima precarietà della loro esistenza, la lotta per la sopravvivenza, fa da contraltare al sangue come metafora della morte, al quale Hirst attribuisce probabilmente una plurisemanticità, trasformandolo in oggetto di conquista, di rigenerazione.
La vita che irrompe nella sua più sconvolgente banalità è una delle tematiche caratterizzanti di molte opere degli Young British Artists a partire dalla fine degli anni ’80. Tracey Emin ci tornerà dieci anni più tardi con la sua opera più celebre, intitolata My Bed. Quello della Emin, è il racconto di una storia piccola, la sua, narrata per mezzo di oggetti semplici, quotidiani, tracce di sé. Cinquant’anni prima Robert Rauschenberg aveva innalzato il suo di Bed, seguendo Duchamp nell’impresa del ready made, che negli anni ’50 diveniva però dinamico, assorbente, un nuovo supporto per una nuova idea di pittura. Il letto disfatto dell’artista londinese non è però trattato come un dipinto, non è appeso a una parete ricoperto di colore, è un letto disfatto e basta. È la storia di giorni passati a letto, dopo la fine di una relazione, nel 1998. Ciò che resta sono frammenti, bottiglie, sigarette, preservativi, lo scatto di una polaroid. Tracey Emin riproduce un’esperienza privata, un campione di esistenza, e tutti sono chiamati a viverla come tale.
L’azione artistica degli YBA è perciò inclusiva, interrogante, paradossale. Utilizza l’ordinario e il quotidiano potenziandoli, capovolgendone il senso, sino a farne emergere l’aspetto più ambiguo, oscuro, spesso celato dietro la nostra frenetica incapacità di fermarci a guardare la vita.
My Bed, Pharmacy, Au Naturel della youngbrit Sarah Lucas, la dibattutissima Holy Virgin Mary di Chris Ofili e quanto mai Myra di Marcus Harvey – il ritratto della serial killer Myra Hindley realizzato con le impronte in bianco e nero della mano di un bambino – come un pugno inarrestabile, ci mostrano ciò che non vorremmo vedere: le nostre dipendenze, i vizi, i tabù di una società ancora vittima delle discriminazioni razziali e sessuali. E questo dialogo forzato è tanto più bruciante quanto più la provocazione è irriverente, derisoria, immune al senso comune del pudore e al moralismo.