Le cose evidenti risultano spesso le più difficili da spiegare. Nelle fotografie di Angela Sairaf, per esempio, la semplice presenza dei soggetti diventa motivazione stessa dello scatto, costruito secondo alcune costanti: una composizione essenziale, fatta di pochi elementi, con colori per lo più uniformi, dove i contrasti vengono delegati all’accostamento tra le texture degli oggetti. Sono fotografie “di superficie”, dove tutto appare chiaro – proprio perché niente è tenuto nascosto. Eppure, non appena si chiede ad Angela di descrivere o presentare i propri lavori, le parole fanno un passo indietro.
Da fotografa che ha iniziato a scattare molto presto, quando a sei anni il padre le regala la sua vecchia Ricoh, che da quindici anni lavora per magazine e agenzie di moda, con studi e specializzazioni universitarie in campo fotografico, Angela Sairaf si trova quasi a disagio a dover parlare dei propri scatti: in qualsiasi intervista reperibile online, risponde di non avere una definizione di stile e, anzi, di rifuggirla il più possibile. Scelta che giustifica, da un lato, per se stessa: dopo anni di lavoro nel settore, vuole continuare a concedersi il giusto spazio (ovvero: tutto quello possibile) per sperimentare, cercare e non ripetersi; dall’altro, per il pubblico: perché si possa relazionare direttamente ai suoi scatti, senza intermediari o precostruzioni, leggendovi verità e storie personali. E, infine, anche per restituire alla fotografia la capacità che le è connaturata di poter essere qualsiasi cosa: una testimonianza, uno scatto di moda, un progetto artistico, un lavoro d’inchiesta.
I don’t capture images. They do capture me!
A rendere possibile e garantire tutto questo, secondo Angela Sairaf, è l’intuizione: prima nel momento dello scatto, quando “vede” la fotografia stessa proporsi all’obbiettivo nell’incontro causale tra i suoi occhi e il posizionarsi delle cose, poi nella relazione con il pubblico, quando in silenzio avviene la lettura delle immagini. In entrambi i momenti, le parole diventano superflue, le congetture da evitare: la fotografia di Angela Sairaf è in grado di parlare per se stessa.
La descrizione della sua ultima serie, The other side of no side (2016), non fa che ribadire quest’idea: si limita infatti a informarci che “Siamo sempre dall’altro lato. Anche quando non c’è un lato”, non aggiungendo altre indicazioni rispetto al titolo stesso del progetto, riprendendolo anzi quasi parola per parola. In realtà, ci viene suggerita la prospettiva: quello che sappiamo ora, dopo aver letto la descrizione, è che siamo noi a essere dall’altro lato. Rispetto a chi o a cosa? Chi è compreso in questo “noi”? Conoscere il luogo dove sono state scattate le fotografie ci aiuterebbe a capire meglio?
Ci troviamo di fronte a delle immagini che riusciamo vedere senza difficoltà ma che non ci è possibile decifrare completamente: riconosciamo tutti i soggetti ritratti, ma ci sfugge il contesto più ampio; sono tasselli autoconclusivi che ci impediscono di completare il puzzle. Eppure, è proprio così che la fotografia di Angela Sairaf comincia a funzionare: la sensazione (e non la comprensione) che ci ha suggerito comincia a farsi strada, l’intuizione sposta con delicatezza la nostra prospettiva, cambiando il nostro modo di essere pubblico.