Blauer Hase è un collettivo artistico veneto che propone forme sperimentali di produzione e fruizione dell’arte, provando a lavorare sugli strumenti della comunicazione. In occasione di Sprint, hanno presentato il progetto paesaggio: un periodico che raccoglie paesaggi raccontati senza immagini, lavorando con il testo, i segni grafici e lo spazio. Il vuoto, le radure, i raggruppamenti di caratteri tipografici interagiscono in modo inedito, scardinando i tradizionali significati attribuiti ai grafemi. Ogni numero è una piccola opera collettiva, con ospiti d’eccezione come Hans Ulrich Obrist.
Il paesaggio è una cosa materiale, una costruzione intellettuale astratta condivisa in un certo intervallo geografico, oppure un grande slogan?
Daniele Zoico: Paesaggio, in questi termini, viene inteso come un unicum, una raccolta di paesaggi di artisti in forma testuale, limitando l’uso dell’immagine. Non vi è alcuna separazione tra i vari contributi, pur essendoci una precisa identità e per questa ragione la fruizione è più orientata a quello che potrebbe essere un panorama dove il fruitore segue il proprio punto di vista.
Riccardo Giacconi: Quando abbiamo concepito la serie di pubblicazioni Paesaggio, non avevamo l’obiettivo di cercarne una definizione, ma di aprire un campo, proporre uno spazio dove gli artisti che invitavamo potessero avvicinarsi alla parola “paesaggio” secondo le vie a loro più congeniali, utilizzando gli approcci più vicini alla loro pratica e ai loro interessi.
Adoro il fatto che non ci sia una sola foto di cascate o spiagge deserte, come nasce il concept della pubblicazione?
RG: Paesaggio lavora con una sorta di paradosso. Proponiamo ogni volta agli artisti di realizzare un contributo attorno al concetto di paesaggio – un concetto tradizionalmente visivo, legato ad un’immagine – attraverso un testo. Senza l’utilizzo delle immagini. Fin dall’inizio, Paesaggio si è configurata coma una sorta di esplorazione dell’uso della scrittura da parte di artisti visivi. In ogni numero della pubblicazione, cerchiamo di mettere insieme artisti diversi, che nella pratica si interessano della scrittura, del paesaggio o di entrambi.
Il paesaggio è un fenomeno di massa?
RG: Possiamo pensare alla bipolarità fra paesaggio e campo. Il paesaggio ha a che fare con il vedere dall’esterno, con un’immagine verticale, con un palinsesto, con una metonimia di elementi uno vicino all’altro. In esso, lo spazio è pre-esistente, e viene occupato da tali elementi (come su una tela nel caso della pittura di paesaggio). Il campo, invece, ha a che fare con l’essere posizionati all’interno di esso, con un’entità orizzontale, rizomatica, con la metafora, in cui gli elementi si influenzano l’uno con l’altro. In esso, lo spazio è creato dagli elementi che lo abitano, non è pre-esistente ad essi.
Helicotrema è un altro interessante progetto che state portando avanti. Come avete immaginato di costruire questo festival?
DZ: Helicotrema nasce dall’esigenza di ricercare una modalità di fruizione per le opere che utilizzano il suono come medium. La forma alla quale ci riferiamo in maniera diretta è il festival del cinema, per la simile struttura che sostiene il progetto: una programmazione, una serie di autori coinvolti e uno spazio in comune.
Abbiamo pensato di costruire un forte legame con quello che, con le prime esperienze di trasmissioni radiofoniche nella prima metà nel Novecento, è divenuto uno dei principi del festival: l’ascolto collettivo.
Avete paura che la specificità dei luoghi possa annullarsi?
DZ: Lo spazio e, di conseguenza, la specificità di un luogo, sono elementi molto importanti all’interno di Helicotrema. Nel corso delle prime cinque edizioni del festival abbiamo sperimentato diverse realtà, iniziando con il primo anno all’aperto, in un prato antistante la Serra dei Giardini di Venezia passando, tra gli altri, per l’Istituto dei Ciechi di Milano, la Fonderia Artistica Battaglia di Milano, l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri (FI), una Polveriera Austriaca a Forte Marghera (VE), la rotonda di Progetto Diogene a Torino. Ogni spazio ha avuto un ruolo all’interno del festival e la nostra programmazione ha sempre ricercato un dialogo, a volte anche di rottura, con lo spazio stesso.
Cos’è Blauer Hase?
DZ: Blauer Hase nasce dieci anni fa come Blue Rabbit con le vesti di una rock band. Blauer Hase è stata una successiva evoluzione che ci ha permesso di indagare alcune dinamiche legate alle produzioni culturali, attraverso eventi espositivi, pubblicazioni ecc.
La forma del collettivo ha sempre avuto un ruolo chiave nella nostra pratica, pur non avendo mai redatto un manifesto, ma semplicemente sulla base delle intenzioni comuni.