Le origini del New Brutalism
Il fenomeno neobrutalista s’inserisce nelle numerose correnti di pensiero nate nel dopoguerra in Europa, annoverando tra i suoi principali esponenti gli inglesi dell’Indipendent Group. Il quadro storico di riferimento è quello di uno scenario post-apocalittico in cui le rovine, frammenti di edifici devastati dai bombardamenti, dipingono una realtà urbana cruda e incerta. Sono questi gli elementi a cui i neobrutalisti attingono per dar vita a un nuovo realismo costituito da una ricerca della sincerità strutturale e legato alla povertà dei materiali, uno su tutti, il beton brut. Si tratta di architetture che rinunciano alla necessità figurativa, ma che trovano un connotato iconico, forse indispensabile se parliamo di un monumento, nella rinuncia ad apparire secondo una forma che non sia condizionata semplicemente da ragioni tecnico-costruttive. In questo senso c’è un distacco innegabile tra gli interventi monumentali del totalitarismo che, di poco precedenti, mirano a produrre edifici per impressionare e assoggettare l’osservatore, rispetto ai neobrutalisti che trovano invece nella dimensione ordinaria dell’architettura una ragione di esistenza e consistenza. Una formula che garantisce, almeno da un punto di vista teorico, un risultato formale collettivamente condivisibile in virtù di una rinuncia espressiva individuale.
Il Sud America come campo di sperimentazione dell’estetica brutalista
L’America rappresenta fino dalla fine dell’Ottocento quel territorio vergine in cui molte delle teorie architettoniche sviluppate nel Vecchio Continente trovano un fertile campo applicativo e il fenomeno neobrutalista sembra non farvi eccezione. In particolare è nella metropoli sudamericana che questa nuova estetica viene assunta a base di un’idea di città rivolta al sociale, che sposi una dimensione pubblica del vivere collettivo e che al tempo stesso si riferisca all’idea che “la finalità dell’oggetto artistico è quella di produrre simultaneamente un futuro e una tradizione”. A partire dagli anni ’60 diversi professionisti italiani ed europei (Pier Luigi Nervi, Giulio Pizzetti), esponenti della nuova corrente dell’architettura strutturale, vengono invitati nelle facoltà argentine e brasiliane e trovano committenze pubbliche e private.
Ben presto le nuove concezioni strutturali s’impiantano in quei solchi della nuova architettura sudamericana, per rintracciare nella cultura materiale, nella realtà complessa e contraddittoria della metropoli della metà del Novecento, un nucleo del processo creativo. Questi input europei non trovano soltanto corrispondenza in un’idea di “aspirazione alla realtà”, ma vengono assunti come un mezzo potente, il simbolo di una strenue lotta per una rinnovata libertà individuale e collettiva in un contesto spesso caratterizzato da politiche totalitarie.
San Paolo, una “metropoli brutalista”. L’esperienza di Lina Bo Bardi
In Brasile già a partire dagli anni ’50, la tecnica costruttiva del cemento armato è piuttosto sviluppata, soprattutto grazie al lavoro di Oscar Niemeyer, Lucio Costa e di quella che è definita come la scuola paulista, guidata dall’architetto Vilanova Artigas, particolarmente attiva nella metropoli di San Paolo. Sebbene gli esponenti di questa scuola abbiano sempre rifiutato la banalizzazione stilistica delle loro opere al caratteristico uso del cemento “bruto”, il connubio tra espressione formale e impianto strutturale dell’edificio, l’attenzione alle ricadute sociali e urbane nella costruzione dei monumenti, l’avvicinavano all’esperienza brutalista europea. Il contatto con la scuola degli strutturisti italiani produsse una notevole evoluzione della produzione architettonica, particolarmente tangibile nelle opere di Lina Bo Bardi. Nata a Roma, dopo aver conseguito la laurea in Italia e aver collaborato nello studio di Giò Ponti, arriva in Brasile nel 1946 insieme al marito Pietro Maria Bardi, incaricato della gestione del MASP di San Paolo, una delle maggiori istituzioni culturali del paese. È proprio il marito a metterla in contatto con Pier Luigi Nervi per la supervisione strutturale nella costruzione della sua opera manifesto, la Casa de Vidro a San Paolo realizzata nel 1950.
La progettista italo-brasiliana attinge dall’esperienza dei maestri del Movimento Moderno in Europa degli anni ’20 (Mies van der Rohe e Le Corbusier in primis) per realizzare questa casa-cristallo, quasi contemporanea all’altrettanto celebre Glass House di Philip Johnson. A differenza del progettista americano però la Bardi sospende la scatola vetrata al di sopra di esili pilotis, creando un duplice effetto spaziale: al piano terra l’estradosso passante del solaio piano della casa genera uno spazio-filtro, delimitato da una grande zona d’ombra, e al primo piano l’orizzonte visivo si spalanca al di sopra del livello delle chiome degli alberi della periferia di San Paolo. L’impressione che se ne ricava è quella di un’estroversa dispersione dell’abitare nel paesaggio circostante, confermata dalla presenza di un patio che ritaglia un pezzo di natura all’interno della sagoma dell’edificio. L’internità dell’edificio è proiettata verso l’esterno ma è filtrata dagli elementi costruttivi astratti tipici dell’esperienza modernista europea: la colonna, il piano, il setto, che in un’attenta combinazione creano un’elegante tensione spaziale.
Questo gesto semplice quanto estremo di sospendere il volume dell’abitazione al di sopra della quota del suolo, verrà sperimentato da Lina Bo Bardi con schemi costruttivi ed esiti diversi anche alla scala urbana.
La metropoli di San Paolo, nella sua mancanza di riferimenti contestuali e nella liquidità delle sue continue trasformazioni, diventa il luogo ideale dove applicare un’idea di architettura in cui l’invenzione strutturale è l’elemento generatore di occasioni e suggestioni spaziali che si offrono generosamente alla città. Una sorta di primitivismo dei gesti, come quello dei nomadi che sollevavano grandi massi dal suolo per trasformarli con una semplice azione in menhir, può avere in una metropoli sregolata una forte cassa di risonanza. È sicuramente questo il caso del progetto del MASP che Lina Bo Bardi realizza tra il ’57 e ’68 con una più matura consapevolezza costruttiva. Situato sull’Avenida Paulista, alla sommità di un crinale da cui è possibile godere del panorama della città, il museo è descrivibile in poche, semplici azioni visibili: due portali in cemento armato simulano enormi staffe che sollevano la scatola del museo dal suolo; una massa semi-ipogea accoglie sul dorso un belvedere della città, ribadito dal distacco del volume da terra, che ha liberato allo sguardo la vista sul paesaggio urbano. Quello che si crea è un interessante condizione di sospensione, uno spazio “limbo” aperto alla città in cui il visitatore è contemporaneamente al di sopra e al di sotto di una massa architettonica. Il progetto anticipa in qualche modo quello che sarà uno dei grandi temi del museo contemporaneo: non più uno scrigno introverso di opere d’arte nascosto dietro una facies monumentale ma un edificio capace di generare spazio urbano, al servizio della città. Nonostante la rinuncia a un’espressività monumentale il MASP è anche capace di rivestire un ruolo iconico nell’immaginario metropolitano che lo consacrerà a uno degli edifici simbolo di San Paolo, insieme al SESC-Pompeia, anch’esso opera di Lina Bo Bardi.
Architetture meticcio: l’opera di Clorindo Testa
L’Argentina e in particolare Buenos Aires garantiscono uno sviluppo significativo all’esperienza brutalista. La capitale, distesa nella Pampa argentina si protende verso l’oceano attraverso un sistema insediativo estremamente rigoroso e ripetitivo come quello della Manzana. È nel contesto di questa affascinante metropoli che s’inserisce l’esperienza sui generis di Clorindo Testa. Nato a Napoli nel 1923, si laurea nel ’48 a Buenos Aires. Nel suo lavoro professionale ibrida produzione artistica e architettonica, fattore che avrà importanti ricadute sulle opere costruite. Nonostante Testa sia considerato uno dei massimi esponenti del Brutalismo sudamericano, la sua poetica sconvolge radicalmente l’assetto teorico nato con il New Brutalism. Come rileva Juan Fontana, l’ermetismo formale dell’estetica brutalista tipico delle esperienze nord-europee viene trasformato grazie ad una propensione più spinta alla relazione dell’edificio con l’esterno, plasmando le masse strutturali per captare e interagire con la luce onnipresente di Buenos Aires.
La contaminazione del modello europeo prende forma anche nella costante introduzione di elementi plastici, in molti casi allegorici nel rigido schema costruttivo che sottende ogni architettura. Un portato primordiale, archetipico anima l’asciuttezza della forma generando un interessante meticcio. Ecco che un fenomeno nato per negare la necessità figurativa dell’architettura, viene nel contesto argentino ribaltato per dar vita a uno spurio e variopinto linguaggio che corrisponde alla complessità del luogo dove quell’architettura viene generata. Tale atteggiamento è visibile nel progetto per la Biblioteca Nazionale della capitale argentina, calato in un isolato urbano della rigida griglia che caratterizza gran parte della metropoli. Qui la regola del sistema insediativo viene forzatamente infranta con un impianto rigoroso almeno quanto quello visto nel MASP della Bo Bardi. Quattro nuclei in cemento armato sospendono un pesante volume contenente le sale di lettura. L’edificio poggia su un suolo abitato che contiene depositi e spazi di servizio creando alla quota dell’isolato una grande piazza pubblica coperta e caratterizzata da una forte centralità. Il corpo estraneo del grande volume sospeso non è tuttavia asettico come nella tradizione modernista europea, ma ripetutamente contaminato da sporti decorati e da oggetti plastici che richiamano vagamente gli object a reaction poetique di lecorbusiana memoria, sovvertendone completamente il significato. L’idea di monumento come generatore di spazio pubblico prima ancora di contenitore di funzioni appare anche qui in tutta la sua chiarezza: una sequenza verticale di spazi profondamente diversi, a volte antitetici, conformano la plastica vibrante dell’intera facies esterna dell’edificio ed esaltano un’iconica componente zoomorfa.
Questo processo di allontanamento dalle categorie architettoniche del brutalismo europeo sembra amplificarsi nel corso del tempo, se osserviamo gli ultimi progetti di case realizzate a partire dagli anni ’80, nonostante persista un rigore nell’impianto di stampo modernista.
In casa La Tumbona, il volume puro e secco razionalista si disarticola in una collana orizzontale e verticale di spazi in collisione, producendo una dicotomia tra superficie esterna dell’abitazione e articolazione interna. La massa della casa, sospesa al di sopra di poderosi pilastri troncopiramidali in cemento, conquista la quota della vista sull’oceano, che inquadra attraverso ampie finestre quadrate. La sagoma asettica dell’edificio viene corrotta dall’innesto violento del volume della terrazza e dalla conformazione della copertura scalettata che si avvolge su se stessa, generando nell’edificio una tensione verso l’alto. La componente pittorica, onnipresente nell’opera di Testa sembra qui prendere il sopravvento grazie anche a una scelta cromatica che rifiuta ogni tipo di mimetismo.
Queste esperienze sudamericane rivelano la propensione di alcuni architetti d’oltre oceano di assorbire e immediatamente rielaborare il portato brutalista europeo, esprimendolo attraverso una vitalità nuova e un’autentica attenzione alla dimensione sociale e collettiva.
Luciano Semerani rileva come in una certa produzione architettonica sudamericana esiste “una declinazione meridionale di cubismo, purismo, razionalismo, brutalismo, che inseguono o inseguivano là un’idea di felicità estroversa, impensabile altrove e insieme una sorta di consapevolezza malinconica dei confini che delimitano il diritto alla vitalità.”
È forse questo il segreto della bellezza di queste architetture?