Prendi un borgo di Londra come Lambeth, lungo e stretto, che da West Norwood ti porta dritto dritto al cuore politico di Westminster. Prova ad attraversarlo da Vauxhall a Waterloo a bordo di un treno, un giorno in cui le nuvole gonfie e pesanti dell’Inghilterra lasciano il posto ad un sole raro e generoso: la luce sfiora appena le pareti di mattoni che qui sembrano tutte diverse, le riempie ed esse risplendono, riflettono tonalità calde ed avvolgenti anche nelle strade più grigie.
Rimani seduto mentre oltre il finestrino tra il tuo riflesso e lo skyline, scorre il Tamigi.
Ecco, esattamente quando perdi di vista quella scia melmosa ed inizi ad intravedere il Big Ben, girati e guarda alla tua destra: no, non è un dipinto di Sironi quello che con le sue finestre scure ed i suoi prospetti eterogenei ti ammicca da lontano.
In quella che altrimenti sarebbe una via piuttosto infelice, con un fronte completamente definito dall’ingombrante presenza della ferrovia, sorge la Newport Street Gallery, un edificio ambiguo e curioso come d’altronde è l’uomo che l’ha voluto, niente di meno che il capofila dei Young British Artist e probabilmente uno degli artisti contemporanei più celebri al mondo: Damien Hirst.
La galleria, commissionata nel 2004 a Caruso St John per ospitare i più di tremila pezzi della collezione privata di Hirst, rappresenta la realizzazione di un’idea che lo studio aveva già esplorato precedentemente nel concorso per il MAXXI di Roma.
Allora, in netto contrasto con l’idea della vincente Zaha Hadid, gli architetti proposero un progetto che si basava da una parte sulla conservazione delle caserme esistenti al piano terra e dall’altra sull’ampliamento delle stesse attraverso una sequenza di volumi caratterizzati da una forte divergenza sia dimensionale che formale.
L’edificio londinese, pieno compimento di questa primordiale idea, rappresenta un raffinatissimo esempio di dialogo tra passato e presente, nonché una brillante conversione di alcuni edifici industriali: infatti, sebbene attualmente l’edificio sia un unicum, non è difficile intuire, proprio grazie alla difformità della facciata principale, che esso si compone di quattro fabbricati diversi.
Più difficile, ed è qui che entra in gioco il sapiente gesto di Caruso St John, è capire quali edifici siano stati progettati ex novo e quali invece siano stati riadattati.
Infatti, al fine di completare la stecca dei preesistenti magazzini vittoriani (che in passato erano adibiti a laboratori per la realizzazione delle scenografie dei vicini teatri del West End e che, acquistati da Hirst, ne sono diventati lo studio), i due edifici in testata sono stati da una parte progettati con forme che, pur richiamando quelle degli edifici industriali ottocenteschi, sottolineano la loro contemporaneità, e dall’altra realizzati tramite una delicata calibrazione delle tonalità del materiale londinese per antonomasia: il mattone.
Dal momento che gli edifici preesistenti si differenziano per altezza, per tipologia di aperture e per profilo del tetto, anche le aggiunte seguono la stessa logica paratattica: ciononostante, soprattutto dal punto di vista materico, il nuovo e l’antico compongono un unico conglomerato, coeso e compatto.
Internamente, ogni galleria è ridotta ad un’essenziale scatola bianca che, sobriamente, si presta come quinta per le opere in mostra: per questo la vivacità dell’articolazione spaziale interna è interamente riferibile alle differenti e talvolta vertiginose altezze degli ambienti, disegnati per ospitare le ingombranti scenografie teatrali ed ora suddivisi ed attraversati dal tessuto distributivo che connette le due nuove estremità.
Ed anche qui il mattone gioca un ruolo cruciale: infatti, come guscio per i tre corpi scala ovoidali che collegano i diversi livelli di cui si compongono i fabbricati, si è realizzata una voluttuosa e complessa curva in mattoni bianchi.
L’eleganza, la semplicità e l’incredibile tecnica delle soluzioni individuate da Caruso St John sono state premiate nel 2016 dal RIBA Stirling Prize, massimo riconoscimento dell’architettura britannica.
L’estro di Hirst ha invece trovato libero sfogo nell’allestimento del ristorante Pharmacy 2, riproposizione ancor più barocca della fortunata esperienza del primo locale dell’artista a Nothing Hill: qui, tra pillole trasformate in complementi d’arredo e catene di DNA, si avverte forse l’unico vezzo di un committente altrimenti generoso e discreto.