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Storie tra mito e nuda realtà si celano dietro le opere di Alix Marie, giovane artista francese diretta, sottile, carnale. Attraverso la sua pratica, l’artista indaga le corrispondenze tra il mezzo della fotografia e la pratica scultorea, alternando una cruda esplorazione della carne ad un delicato sondaggio della nozione di corpo. Il mezzo fotografico, analizzato sia esteticamente che teoricamente, viene contestato ed esteso trasportando lo spettatore in un’esperienza tridimensionale tra familiare e sconosciuto, logico ed irrazionale, inspiegabile e domestico. Artwort ha intervistato Alix Marie per indagare il sottile confine che può nascere tra scultura e fotografia.
Sei un’artista molto giovane, nata in Francia nel 1989. Parlami della tua vita artistica.
Sono nata e cresciuta a Parigi. A quattordici anni ho iniziato a frequentare lezioni per modellare l’argilla grazie a mia nonna Florence Thomassin che è una fantastica artista di ceramica e da lì forse tutto è iniziato, l’interesse per i corpi, il tatto, la scultura ecc. Entrambi i miei genitori lavorano sui film e da lì probabilmente ho tratto il mio interesse per la fotografia. A 17 anni mi sono trasferita a Londra, ho studiato lì, prima alla Central Saint Martins for Foundation and BA in Fine Arts e poi ho frequentato un Master in Fine Art photography al Royal College Of Art.
Il tuo processo artistico è molto personale. È una continua unione di fotografia e scultura. Come è avvenuta la connessione tra le due arti?
È stato durante i miei due anni alla Royal College che ho iniziato a scoprire e sviluppare il mio interesse e la mia pratica di “fotografia estesa” e ho iniziato ad indagare la fotografia come oggetto dalle tre dimensioni. Da quando ho frequentato la BA ho cercato di mescolare i miei interessi nella scultura, la relazione tra tatto, materiali e vista con la fotografia. Questo mi ha portato a studiare la relazione tra due pratiche: la scultura e la fotografia attraverso il concetto di indicalità e di colata, sia nella scultura attraverso la colata di corpi sia nella fotografia che è nota coma colata di luce. Entrambe sono impronte o tracce di un unico tempo e momento.
Come si sviluppa il tuo processo creativo? Viene prima la fotografia o l’idea?
Ho un’idea, che fotografo, che poi stampo su vari materiali (plastica, tessuto, vetro…), realizzo una scultura, quindi rifotografo e così via. La fotografia e la scultura si alimentano e spesso sembra diventare un processo senza fine. Importante è l’esplorazione costante delle possibilità che spingono il processo fino al punto in cui mi sembra finito. Per una mostra, assumo sempre la percezione dello spazio, della città, dell’architettura, così da influenzare la forma del mio lavoro. Ma non significa che non potrebbe essere digerita di nuovo e trasformata da scultura in fotografia di una scultura per qualcosa di differente. È una pratica, un processo continuo. Fa parte dei miei interessi l’immagine fotografica: le sue infinite possibilità nel modellare il movimento e la forma ovunque sia, online, sulla strada, in un libro, in una cornice.
Sei interessata alle similarità tra pelle e stampa fotografica. Puoi spiegare questo concetto?
Quando ho iniziato il master in fotografia al Royal College of Arts, provenivo da una formazione basata sulle arti figurative e i fotografi subito mi hanno circondatoo. Il mio modo di lavorare è sempre stato caotico ed ero colpita dall’aspetto clinico della fotografia, dall’uso del laboratorio, dei bisturi, dei guanti, ecc.. Le precauzioni attorno alla stampa fotografica rimandano alla chirurgia. Da qui ho iniziato a pensare in parallelo alla stampa e alla pelle: entrambe superfici, entrambe sacre. Cosa si fa per manipolare, toccare, creare una stampa del corpo? Come pensare la rappresentazione del corpo e il corpo della fotografia stessa?
Chi sono i tuoi modelli?
Lavoro principalmente con persone che fanno parte della mia cerchia più intima, amici, familiari, amanti. Inizialmente la scelta era per convenienza ma dopo è diventata parte del lavoro. L’intimità legata alla foto scattata, la fiducia, l’ispirazione, lo scambio di energia, tutte queste relazioni alimentano il lavoro.
Ne La Femme Fontaine sei la scultrice e la scultura, l’oggetto e il soggetto. Quali sono i tuoi intenti? La tua arte è un’espressione autobiografica ed autoreferenziale o intendi trasmettere un messaggio, provocare una reazione nei visitatori?
Sono sempre stata affascinata dal mito patriarcale di Pigmalione, e da bambina volevo essere tre di loro: la musa, l’artista e la scultura, tutte in una volta e tutte al femminile. Così La Femme Fontaine è stato un po’ un gioco. Il mio lavoro ha qualcosa di autobiografico sì, ma mi assicuro sempre che non sia solo questo, che abbia il potenziale per raggiungere l’esperienza delle altre persone. La mia intenzione non è di provocare per lo scopo di provocare, e non penso che il lavoro sia particolarmente scioccante, ma al contrario è sempre una questione di percezione. Penso che non sia tanto importante trasmettere un messaggio quanto provocare un’esperienza condivisa. Certo, mi diverto quando le persone sono emozionate dai miei lavori, mentirei se dicessi il contrario.
In La Femme Fontaine e in Orlando usi differenti materiali, ma il corpo è sempre la chiave di lettura. C’è un collegamento tra le due scelte?
Orlando guarda molto al medium fotografico e al come rappresentare l’intimità. In quel lavoro ho cercato di giocare con le tre dimensione potenziali della fotografia, l’idea del ritratto, della monumentalità e della scultura stessa. Ne La femme Fontaine, poichè il lavoro era stato commissionato a Roma, ho usato un materiale scoperto durante l’Impero romano, il calcestruzzo, e ho pensato al corpo attraverso le sculture antiche e la mitologia.
I miti hanno influenzato i tuoi lavori. Da quali sei più ispirata?
La mitologia nella sua accezione più ampia è un’ispirazione, dalla mitologia greco-romana ai miti creati nelle nostre vite. Ma penso di essere interessata principalmente al modo in cui noi viviamo, abitiamo, rappresentiamo e percepiamo i nostri corpi. Attraverso l’arte, la medicina, la politica, il corpo è sempre al centro della mia ricerca.
Molti aspetti del tuo lavoro sono autobiografici. Pensi di poter trasferire le tue opere dal particolare all’universale? Pensi che il visitatore possa identificarsi nelle tue opere?
Un’opera ha successo quando mescoli differenti idee e lavori su livelli differenti. Così nelle mie opere spesso traggo ispirazione dalla mia vita, così come da contenuti artistici, così come dal sito in cui mi trovo, così come dai miti e dalle storie. È questo il punto in cui il personale si fa universale. Può far riferimento a qualcosa riguardo la teoria della fotografia che un fotografo riconoscerà, ma allo stesso tempo parlare di una delusione d’amore, che è qualcosa che molta più gente riconsocerà. Spero che molti visitatori provino qualcosa nel momento in cui si confrontano con l’opera, ma non vorrei arrivare a chiamarla identificazione.
Hai nuovi progetti in mente?
Esporrò il mio nuovo lavoro fino alla fine di Maggio alla Roman Road Gallery a Londra e preparerò una personale nel Febbraio 2018 al Dusseldorf’s Photo Weekend come parte del Portfolio Review Prize che ho vinto.
Infine, può la fotografia diventare scultura?
Sempre molti più fotografi stanno esplorando diverse possibilità aiutati dalle tecnologie avanzate. Il critico Lucy Scotter parla di “fotografia estesa” e ne sta cercando il soggetto. Ma per me ci saranno sempre scultori che scolpiscono e fotografi che fotografano. Non bisogna mescolare ogni cosa perdendo la conoscenza o la tecnica di strumenti specifici. La devi acquisire progetto dopo progetto, pratica dopo pratica.