Flashback dal passato, volti impassibili, sguardi fissi, colletti bianchi, animali simbolici. L’essenzialismo ieratico di Aldo Sergio, pittore salernitano trasferitosi a Milano, ci mostra scene eterne avulse da qualsiasi ambientazione e intrise di una sacralità pura.
Tra questi occhi, questi oggetti, queste scene, qualcosa sfugge, qualcosa stuzzica la vista e il pensiero: piccoli quadrati colorati intendono nascondere parte della tela e rendere le opere in bilico tra tradizione e digital art. I pixels, che sostituiscono frammenti dei soggetti, si figurano come la cifra stilistica dell’artista che vive l’arte nel modus operandi più tradizionale possibile: tela, olio e cavalletto. Allo stesso tempo però, con la mente, il salto nel futuro si fa concreto: più ci si avvicina alla tela più il tutto si fa indefinito ma scandito da una griglia ordinatrice, più ci si allontana più nasce il dubbio o la chiarezza. Spetta all’osservatore trovare la giusta distanza per comprendere le sue opere.
Pittura: prima passione?
Senza dubbio, fin da quando ero bambino. A cinque, sei anni andavo nello studio di mio nonno. Ricordo ancora l’odore e l’effetto di fascinazione che aveva su di me. Ci passavo intere giornate. La pittura è il linguaggio attraverso il quale cerco di decifrare la realtà e codificare le sensazioni.
Quale insegnamento ti ha lasciato tuo nonno?
L’influenza di mio nonno é stata decisiva; il suo studio é stato per me la prima scuola, in quel luogo ho appreso la grammatica del mestiere.
Dopo il diploma alla Scuola d’Arte, cosa ti ha spinto a studiare Antropologia?
Ho pensato a lungo quale potesse essere il percorso da intraprendere dopo la Scuola. Ero convinto che qualsiasi scelta avrebbe profondamente influenzato la mia crescita artistica. L’Antropologia mi ha fornito gli strumenti per una lettura più ampia della realtà.
Icone cristiane, natura morta, uomini provenienti dal passato. Cosa accomuna questi soggetti?
La forte componente ieratica. Sono soggetti accomunati da una fissità che li rende sacri.
Perché scegli di inserire i tuoi soggetti in un contesto scevro da ambientazioni?
Tutto parte dall’esigenza di sottrarre. I soggetti sono silenziosi, sospesi. I cieli e gli spazi vuoti creano un orizzonte puro, in bilico tra presente, passato e futuro.
Il tuo modo così realistico di dipingere e la presenza estranea dei pixels nelle tue opere si può considerare come un incontro-scontro tra digitale e arte tradizionale? Cosa pensi di questi due mezzi di espressione?
Questa è certamente una possibile chiave di lettura; le scelte stilistiche, apparentemente in contraddizione, in realtà si completano in un’unica visione. I due aspetti suggeriscono orizzonti infiniti di scelte e interpretazioni, nel lavoro così come nella vita quotidiana.
Dal punto di vista della fruizione dell’opera l’alterazione dell’immagine attraverso i pixel permette di porre una certa distanza tra il pubblico e l’opera pittorica. Al contrario gli elementi realistici contribuiscono ad attrarre l’osservatore. È un po’ una metafora della vita, laddove non esiste comprensione possibile se non a una certa e giusta distanza.
La tua prima personale si intitola Isole. Qual è la corrispondenza tra titoli e contenuti?
Quando la galleria mi ha chiesto di dare un titolo alla mostra, per giorni non ho smesso di pensarci. Mi ritrovo spesso a disagio nel descrivere, condensare attravero le parole il mio lavoro. Poi mi sono venute in mente le isole fantasma. Alcune isole nel corso dei secoli sono state tracciate sulla carta geografica e poi rimosse perché inesistenti. Si tratta in alcuni casi errori di navigazione, altre volte sono frutto di illusioni ottiche o semplicemente sono state distrutte dopo l’avvistamento da esplosioni vulcaniche.
Il tema fondante è sempre l’indefinizione. Da cosa nasce il tuo pensiero artistico?
Il mio lavoro si articola intorno a vari livelli di alterazione dell’immagine attraverso processi di scomposizione ingrandimento, frammentazione. Alterno sottolineature ad omissioni. Più che indefinizione, il tema è la compresenza di dubbio e certezza.
Le tue opere stuzzicano la mente oltre che la vista. Qual è l’interazione che vuoi creare con il pubblico?
La scomposizione e la presenza di elementi realistici, provocano nello spettatore una lettura a più livelli dell’immagine. Ogni cosa può essere considerata come cosa o come segno.
Descrivici il tuo studio.
Cavalletto, tele, colori, pennelli, vernici, essenze. Sono fondamentali libri, statuette, vecchie foto, musica, poltrona, teiera, computer. È importante che ci sia uno spazio vuoto, luce, silenzio, incenso.
Quale musica ascolti?
Prediligo la musica classica, ma spazio anche verso altri generi. Molto spesso però ci sono momenti in cui sento il bisogno di dipingere in silenzio.
Stai terminando una tela o sei in procinto di iniziarne una?
Un’opera non può mai considerarsi realmente conclusa.
L’atto del dipingere in sé costituisce solo una fase intermedia nel processo di creazione.
Per quanto mi riguarda comunque ho sempre almeno una tela da iniziare e un’altra che mi attende per essere continuata.