Informal Rooting, An open Altas è il frutto di una corposa ricerca morfologica compiuta tra le vie delle favelas di Rio de Janeiro, un’investigazione critico-scientifica durata anni e nata dalla collaborazione tra IUAV di Venezia e la carioca FAU-UFRJ.
Alessandro Tessari, architetto e cofondatore dello studio ETB, ha percorso e ripercorso le vie della città, osservando, disegnando, rilevando e fotografandone ogni angolo per ricavare gli elementi fondamentali del suo atlante. Tali prerogative metodologiche gli hanno permesso di districare dall’enorme caos gli elementi fondamentali: logiche e azioni di insediamento, stabilizzazione, organizzazione e ri-organizzazione.
Come ti sei avvicinato a questa tematica e com’è stato approcciarsi a questo tipo di realtà sconosciuta e inaccessibile a molti?
Questo lavoro di ricerca è cominciato, come spesso accade, a partire da un viaggio. Un viaggio lungo ed impegnativo che nel 2010 mi ha portato ad attraversare le grandi metropoli del Sud America: è stato un incontro sconvolgente con l’informalità urbana e con il suo straripante carico di contraddizioni.
Da architetto europeo, abituato al confronto con la città storica o con la metropoli nordamericana, quell’inconcepibile proliferazione di disordine e di irrazionalità ha rappresento un momento di rottura da ogni schema interpretativo possibile. L’innesco di un irrefrenabile desiderio di percorrere, di conoscere, di capire quei territori così provocatori per la contemporaneità e per la nostra idea di futuro.
A partire da quel viaggio, è iniziato il percorso d’indagine che mi ha portato ad attraversare, osservare e studiare (per quattro/cinque anni) le favelas brasiliane, in particolar modo di Rio de Janeiro, a conoscere la gente che le abita e dialogare con politici, studiosi e ricercatori.
Alla base di questa ricerca c’era la volontà di osservare con lo sguardo dell’architetto questo universo, oltrepassare la soglia di resistenza rappresentata dal disordine, dal pericolo, dalla precarietà e provare a comprendere cosa stia generando questo tipo di urbanità.
Rio de Janeiro è una città di oltre sei milioni di abitanti e conta circa mille favelas. Un fenomeno urbano difficile da controllare, monitorare e quantificare anche solo in termini meramente numerici e geografici. Quali favelas hai preso in esame e in base a quali parametri le hai scelte?
Il lavoro svolto si propone di affrontare, in modo sistematico e rigoroso, la lettura di questo fenomeno analizzandolo da un punto di vista morfologico e, in particolare, prendendo in esame il tessuto di quattro favelas di Rio de Janeiro. Questi territori sono stati lungamente attraversati, osservati, rilevati, mappati, ridisegnati, analizzati alla scala territoriale per riuscire a sondare le incidenze del radicamento della città informale nella metropoli.
La metropoli, per le sue caratteristiche topografiche e per l’eterogeneità dei tipi informali, si presta facilmente a essere vista come una sorta di laboratorio di osservazione. L’idea è stata quella di osservare quattro tipi di città informale differenti per ubicazione nel paesaggio e nel territorio metropolitano, per dimensione e per tipologia. Sono partito da una piccola favela, la più piccola che ho riscontrato nel tessuto di Rio de Janeiro, collocata in una posizione nascosta rispetto alla città: Las Canoas. Poi sono passato ad una di scala maggiore, Santa Marta, ubicata in un terreno in forte pendenza ed esposta alla città. Per fare poi un ulteriore salto di scala, ho analizzato una “mega-favela”, Rocinha, la più grande favela del Sud America: una vera e propria città dentro la città. In conclusione, mi sono dedicato allo studio di Maré, un complesso di favelas, un insieme di sedici grandi favelas differenti per tessuto, tipologia abitativa, contesto topografico e geografico che si sono saldate nel tempo costituendo un vero e proprio settore urbano di proporzioni enormi che rivaleggia per la sua demografia, per l’economia che produce (tutta informale) e per il tessuto urbano con la metropoli formale di Rio de Janeiro.
Questi territori, come potrai immaginare, sono stati scelti anche in base al loro grado di accessibilità: molte favelas sono accessibili solo ai residenti perché controllate dalla criminalità.
Il lavoro che dà corpo a Informal Rooting è il risultato di diversi anni di ricerca sul campo, un’enorme mole di dati, disegni e fotografie. Come hai impostato la tua ricerca e su cosa hai concentrato maggiormente la tua attenzione?
Negli ultimi decenni il tema della città informale è stato posto al centro dell’attenzione dello studio della città e della metropoli contemporanea. Una realtà che non può essere più ignorata: i dati demografici mondiali ci dicono che la crescita degli slums e della loro popolazione è costante e si attesta oggi a ben oltre il miliardo di persone. Un dato che, tra il 2010 e il 2020, è destinato a crescere ad un ritmo di 27 milioni di persone all’anno. Questi dati non possono non sollevare questioni di fondo sul ruolo che il fenomeno informale sta assumendo nello scenario globale e impongono un confronto con questa esplosiva mutazione del concetto di urbanità.
Dopo le esperienze fallimentari di tabula rasa protratte almeno fino agli anni ’70 sotto la pressione economica della città pianificata, la contemporaneità sta iniziando a mettere in luce un cambio di direzione nelle dinamiche di sviluppo di questi sistemi urbani e il delinearsi di un fenomeno che ho denominato radicamento informale. Cosa si intende per radicamento informale? La tendenza degli insediamenti stabili e precari (come sono le favelas) che, una volta, venivano puntualmente rimossi o alterati nelle forme e negli assetti dalla lenta calcificazione nello spazio, strutturandosi su sé stessi, permanendo e sedimentandosi nell’immaginario collettivo, producendo un inedito mutamento fisico e culturale della città.
Tutto questo, sta generando sempre più frequentemente fenomeni di “non-sostituzione” in cui la popolazione informale, nel suo continuo aumentare, consolida le proprie posizioni, stabilizzandosi. Il radicamento non si esprime solo attraverso un senso di appartenenza sociale della popolazione ma anche, e soprattutto, attraverso il corpo fisico di queste città che cominciano a mutare e ad assumere logiche di stabilizzazione e riorganizzazione, predisponendo il loro tessuto ad una nuova condizione di permanenza.
Questo particolare caso, chiamato informal rooting, è nuovo nella storia della città: certo, le favela esiste da tempo, ma è inedita la proporzione, l’estensione, la proliferazione incontrollata, la connessione strutturale con le economie locali e l’inarrestabile espansione demografica che sta vivendo l’informalità e che rende vasti territori metropolitani stratificati nel tempo e nelle forme spaziali.
Quest’aspetto della “non-sostituibilità” è stato ciò che ha portato allo sviluppo della mia ricerca: se è vero che la letteratura si è occupata degli aspetti legati alle scienze sociali, pochissimi studi hanno invece concentrato la loro attenzione sulle forme urbane e spaziali prodotte in queste città.
Le ragioni di questa lacuna sono numerose: principalmente la difficoltà di studiare formalmente questi luoghi vista la loro inaccessibilità e l’ostacolo logico-culturale nel comprendere il codice organizzativo che c’è dietro le logiche insediative della favela. Infatti, se per definizione i sistemi formali della città sono ordinati da una serie di norme specifiche elaborate per regolare la vita sociale e prevederne gli sviluppi, l’informalità ha un sistema di livellamento che contempla l’introduzione del caos nell’ordine: si tratta di un atteggiamento adattativo che accetta la mancanza di lungimiranza, la sorpresa e la casualità come elementi inevitabili della propria vita. Inoltre, i territori informali si configurano come luoghi a-gerarchici connotati da un’organizzazione non lineare e rizomatica. Bisogna, quindi, abbandonare la possibilità di studiarli attraverso comparazioni ed entrare fisicamente in questi territori: osservarne lentamente le dinamiche, i processi, le trasformazioni e le evoluzioni.
Perché il sottotitolo An open atlas? Si rifà ad un atteggiamento di apertura verso una ricerca da te iniziata e impostata o pone l’atlante come strumento universale di lettura di insediamenti simili a quelli di Rio de Janeiro?
Il sottotitolo An open atlas sottintende un lavoro per certi versi pionieristico che apre la strada ad un’osservazione di questi territori libera da pregiudizi. Non si preclude l’osservazione, soprattutto dal punto di vista formale, di questi territori, anzi c’è la possibilità per l’architettura, per lo studio della forma urbana, di conoscere questi territori per poterne comprenderne le dinamiche e prevederne i futuri sviluppi. Con An open atlas si intende quindi l’idea della costruzione di un metodo di osservazione che permetta una conoscenza tanto delle favelas di Rio de Janeiro quanto di territori simili in altre metropoli del Brasile o del mondo. Il tentativo è, quindi, quello di costruire un atlante imparziale (ovviamente non esaustivo) in coerenza con quello che è una favela: un territorio urbano in costante mutamento. Questa sua costante evoluzione di forme, spazi e luoghi rende impossibile costruire un vero e proprio atlante che congeli dentro una rappresentazione bi o tridimensionale le questioni in atto in questa città. Diventa quindi necessario introdurre un’ulteriore variabile: il tempo. Per molti studiosi contemporanei l’introduzione di questo fattore rende plausibile la denominazione della favela come città cinetica, ossia una città in cui il perno non è più l’architettura come rappresentazione statica e stabile di alcuni riferimenti per lo sviluppo della città ma dove, lo spazio, in constante trasformazione, è elemento rappresentativo della città stessa.
Nella mia ricerca, osservare da dentro, con un approccio site context, questi territori, poneva questa città sullo stesso piano etico e valoriale di una città formale e gli oggetti e le forme prodotte sullo stessa identica scala di un monumento del Palladio o di Leon Battista Alberti. Sono queste le ragioni per cui possiamo considerarlo un atlante, perché pone con assoluto rigore le forme, gli spazi e gli oggetti osservati in una sorta di catalogazione che può essere strumento applicabile ad altri territori.
Che l’appellativo favela derivi dal nome di una pianta dal frutto spinoso che cresce nelle pianure aride del sertão non deve stupirci vista la loro la loro forza, resistenza e spigolosità nell’arido terreno delle megalopoli brasiliane. Si percepisce questa loro vitalità e la tensione tra la città formale e l’altra faccia della modernizzazione carioca?
Si percepisce immediatamente che le favelas carioche sono territori di resistenza rispetto ad una determinata idea di città. Una città non inclusiva, la cui pianificazione ha escluso vasti settori della popolazione dalla possibilità di residenza e che ha invece offerto, come risposta alla crescente domanda (soprattutto dopo l’abolizione della schiavitù), un’unica alternativa: l’occupazione di luoghi prossimi alle aree di lavoro.
La natura delle favelas ha quindi un carattere di resistenza a questo modello di città, frutto di un certo pensiero modernista che sottintendeva una profonda ingiustizia sociale nei confronti delle fasce più povere e disagiate della società.
A Rio de Janeiro formale e informale si trovano ogni giorno a lottare per lo spazio vitale, un testa a testa che li porta molto spesso a convivere in prossimità. Sono frizioni fatte di muri visibili e invisibili che dividono e determinano ogni giorno la città e la sua percezione. Possiamo vedere questo tuo atlante come un tentativo di smorzare le differenze di lettura dell’informale? Un tentativo di normalizzare una matassa che a molti sembra puro caos, conseguenza del più classico jeitinho (in italiano “l’arte dell’arrangiarsi”) brasiliano?
Lo studio è configurato come un costante tentativo di mettere a fuoco questa complessità. Sicuramente è una sfida agli schemi di interpretazione della città attraverso un particolare strumento: l’occhio dell’architetto. Questa ricerca è, quindi, il tentativo di costruzione di un abaco, di un insieme di conoscenze e aspetti importanti relativi all’informalità. Diventa così anche uno strumento capace di fornire elementi che danno corpo alla teoria e alla pianificazione urbana mostrando un’istantanea precisa di questa realtà. Oltre a ciò, questo lavoro rappresenta un tentativo di comprendere questi luoghi attraversati da una tale vitalità sociale, culturale e urbana da renderli in costante competizione con i territori, in particolar modo gli spazi pubblici, generati dalla città formale.
Molto spesso le favelas sono tutt’altro rispetto alla città in cui si trovano inscritte: hanno regole, routine, ritmi, economie e gerarchie del tutto proprie. Ora come ora i muri tra ricchi e poveri sono sempre più alti e invalicabili. Secondo te questa è una tendenza che si consoliderà ancora di più nel futuro?
Il consolidamento di questa distanza è un fenomeno attestato dai dati di tutti gli osservatori scientifici: la base su cui si innesta il mio lavoro dà per scontato che il processo di consolidamento, espansione e trasformazione veloce di questi territori sia in atto e sia ormai irreversibile. A questo punto è necessario capire cosa questo processo stia generando, individuarne le regole o per lo meno cercare di capire se esistono delle regole o dei meccanismi attraverso i quali verificare e prevedere le trasformazioni in atto e poter così operare nelle favelas o individuare vere e proprie strategie di pianificazione ex novo capaci di mediare tra ciò che riteniamo formale e ciò che si ascrive, invece, all’imprevedibilità, all’autocostruzione e all’appropriazione che solitamente accompagna la visione informale.
Queste questioni hanno a che fare non solo con l’informale esistente ma anche con la sua proiezione nel futuro. In questo senso, la teoria dell’architettura della città è capace di assimilare le configurazioni e le grammatiche informali e tradurle in metodi precisi di pianificazione e azione? Apprendere dalla città informale sembra essere una possibile opzione per un progetto urbano architettonico.
Il tuo atlante può essere visto come uno strumento per leggere e comprendere il fenomeno favela in termini morfologici e per sviluppare azioni progettuali che possano migliorare la qualità della vita e lavorare in termini di inclusione nelle dinamiche urbane e sociali di queste aree?
L’atlante può essere uno strumento utile perché si inserisce nel fenomeno del radicamento informale che rappresenta un elemento di dissoluzione dell’idea di città modernista. La città attesa e prevedibile, perfettamente logica e performante, sta dando spazio ad una città inaspettata che non è funzionale e che è popolata da nuove forme, logiche e dinamiche. La città formale sta lasciando sempre più spazio a nuovi territori urbanizzati con differenti consistenze e ad abitanti che non possono essere ulteriormente ignorati. Ormai, queste aree non possono più essere considerate dei buchi neri nelle mappe urbane delle megalopoli del Sud del mondo.
L’atlante è uno strumento che permette di leggere questi territori nel loro processo di calcificazione, capendone, attraverso la lettura morfologica, le dinamiche di sviluppo e di costante trasformazione. Il prodotto più significativo di questo atlante, allontanandosi da un quadro generale e avvicinandosi ad uno, più specifico, dei tessuti informali, è lo studio dello spazio urbano. Questo rappresenta il grande sconosciuto di questi territori, il grande assente nella letteratura specializzata perché l’idea è che le città informali siano luoghi residenziali privati senza spazi urbani pubblici chiaramente definiti. Questo atlante dimostra, in realtà, che gli spazi urbani esistono e sono dei sistemi organizzatori e degli elementi propulsivi dello sviluppo urbano.
Comprendere questo tipo di spazio nella sua definizione, nella sua capacità di trasformazione delle forme urbane, è uno degli elementi più significativi che l’atlante consegna al dibattito e alla letteratura scientifica contemporanea.
I risultati della tua ricerca sono stati esposti in diverse università italiane oltre che in Colombia e in Brasile. Come organizzi l’allestimento di queste mostre vista l’enorme mole di lavoro che c’è dietro Informal Rooting?
Il lavoro di Informal Rooting, realizzato grazie al prezioso apporto dello studio di architettura internazionale ETB, dell’Arch. Elisa Vendemini e dell’Arch. Gabriele Morona, è stato adattato a una modalità espositiva itinerante dal carattere flessibile che raccoglie tutti i disegni prodotti. Tutti i frammenti dell’esposizione sono pensati per essere raccolti e accatastati in un’unica grande scatola che una volta chiusa può viaggiare autonomamente attraverso i continenti.
La mostra riassume due passaggi fondamentali di carattere metodologico. In primo luogo, si presenta un’osservazione di carattere urbano/territoriale nella quale vengono indagate le quattro favelas (Las Canoas, Santa Marta, Rocinha e Maré) attraverso la lettura di alcuni aspetti strutturali. Vengono, dunque, analizzati i modi di sviluppo di queste città, le loro interazioni con il territorio e la città formale, i loro meccanismi di trasformazione e di espansione, di verticalizzazione, e la costituzione dei loro elementi strutturali come lo spazio pubblico e lo spazio di connessione.
A questa prima parte viene fatta seguire quella in cui, in maniera più puntuale, si analizzano gli aspetti di carattere spaziale/morfologico di una di queste quattro favelas: Santa Marta.
Questo percorso d’osservazione ideale condensato in un pacchetto di tavole facilmente consultabili rende rapida, se non immediata, la comprensione del procedimento e dei suoi risultati.
La mostra ha già fatto diverse tappe, non solo in Italia e in Europa ma anche in Sud America dove ha toccato la Colombia e il Brasile e con future tappe in Cile e Argentina.
L’obbiettivo è quello di diffondere un approccio, una sensibilità, un interesse nel guardare a questi territori sottraendoli a un facile giudizio di carattere morale o politico che spesso allontana dai tavoli accademici queste tematiche e di individuare un meccanismo di indagine applicabile a tutte le realtà simili a quelle analizzate. Ad oggi, in alcune delle città in cui la mostra è passata (come Bogotà e San Paolo per esempio), sono stati avviati percorsi di studio accademico legati a questa metodologia d’osservazione.
Cosa ti ha insegnato questa tua ricerca e cosa vuole trasmettere o meglio tramandare?
Questa ricerca mi ha insegnato ad utilizzare le qualità e le specificità dello sguardo di noi architetti verso la città come strumento di interpretazione del mondo. È stato un tentativo costante di mettere a fuoco gli elementi che mi interessano: la dimensione dello spazio, della costruzione della città, delle forme della città, selezionando solo gli elementi di interesse che potevano poi dar corpo alla mia ricerca.
L’osservare dell’architetto è particolare e per questo è uno strumento quasi scientifico capace di raccogliere la complessità del mondo, la complessità e l’evoluzione delle forme, le loro ragioni e trasformazioni. Quest’osservazione non può essere preclusa ad alcuni territori, codificati, organizzati e facilmente accessibili.
Questo secolo ci impone un cambio di osservazione, ci richiede di ampliare le nostre vedute e di farlo con la responsabilità che è propria della nostra disciplina. Una disciplina che deve aiutare a rendere il mondo un luogo degno, vivibile e per tutti.