Le interviste immaginarie sono un viaggio intrigante che ci porta ad incontrare, ogni volta, un grande del passato. Cinque domande rivolte con leggerezza per scoprire vita, passioni, progetti, segreti e umanità di questi personaggi, ricostruiti sulle basi del nostro sogno e sulla realtà della storia. Personaggi che si presentano vivi e attuali, ma in tutto rispondenti al loro tempo e alla loro personalità. Per capire veramente come e perché siano così importanti per la nostra cultura.

Sono molto emozionata perché Jacqueline Casey mi ha concesso un’intervista esclusiva dove mi presenterà, in anteprima assoluta, il catalogo e il poster che ha curato per la mostra “Intimate Architecture: Contemporary Clothing Design“ al MIT di Cambridge, nel Massachusetts, che avrò la fortuna di visitare per la prima volta nella mia vita. Sono anche tanto curiosa perché Jacqueline non mi ha voluto anticipare nulla e così sarà veramente una sorpresa.

Jacqueline, mi perdoni, ma la mia curiosità è grande e vorrei iniziare proprio con la presentazione del catalogo e del poster che lei ha progettato per la prima mostra di moda al MIT allestita nella Hayden Gallery e curata da Susan Sidlauskas. Dedicata a otto designer definiti “architetti della moda”, the top fashions: Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Krizia, Issey Miyake, Claude Montana, Ronaldus Shamask, Yeohlee Teng e Stephen Manniello, l’unico nato in America.
Freschi di stampa! Questa presentazione è veramente un’anteprima assoluta. Ecco il catalogo e il poster, con la meravigliosa cover photo di Robert Mapplethorpe in un bianco e nero assoluto dove l’abito e la posa della modella sintetizzano perfettamente come la moda sia veramente “l’architettura del vestire”. Il mio intervento è stato minimale, ho voluto dare la massima visibilità all’immagine di Robert che come sempre, da grande fotografo qual è, colpisce nel segno con una superlativa immagine forte, sintetica, elegantemente perfetta che ricorda l’equilibrio e l’armonia di certe composizioni ikebana. Ho cercato di incorporare il mio intervento seguendo con delicatezza le pieghe del vestito per ottenere un’integrazione ottimale tra immagine e testo. La mostra aprirà al pubblico il 15 maggio e resterà aperta sino al 27 giugno 1982, quindi siamo agli sgoccioli e colgo l’occasione per invitarla all’inaugurazione che prevede, tra l’altro, anche una sfilata di moda.
La ringrazio molto Jacqueline e mi complimento con lei per il suo progetto che mette in risalto quell’immagine di forte impatto visivo di Robert Mapplethorpe dove raffinatezza tecnica ed estetica racchiudono perfezione, eleganza e grazia. Lei, come tutte le donne combattive e innovatrici in ambiti reputati esclusivamente maschili, ha iniziato a lavorare in un mondo dominato dagli uomini ma, per fortuna, la sua creatività rivoluzionaria è stata presto considerata e premiata ai massimi livelli. Prorio quest’anno le è stato assegnato il “Design Leadership Award” dall’AIGA, l’American Institute of Graphic Arts. Ma gli inizi non sono stati facili. Ho letto in una sua intervista che fu anche osteggiata dai suoi genitori per la sua passione per l’arte.
Diciamo che mi sono guadagnata, con costanza e determinazione, la possibilità di seguire la mia passione lottando anche contro i pregiudizi dei miei genitori che avrebbero preferito vedermi “sistemata” come contabile e quindi hanno cercato di contrastare il mio desiderio di essere un’artista. Così a scuola avevo scelto un indirizzo commerciale, che non mi coinvolgeva minimamente, ma che poi si è rivelato utile per la mia carriera perché… anche i designer devono conoscere l’economia! Ho fatto una serie di lavori per mantenermi, ho lavorato in un grande magazzino come cassiera e nel reparto abbigliamento e poi sono andata in Europa per tre mesi, diciamo… per ritrovare me stessa! Un’esperienza che mi ha segnato, un valido incentivo per definire il mio futuro perché sono ritornata decisa ad intraprendere, definitivamente, una carriera come designer, anche se ero preoccupata per la mia indipendenza economica. Ma la fortuna, legata alla grande passione, mi è venuta incontro e nel 1955, quando sono entrata a far parte del Design Services Office presso il MIT sotto la direzione di Muriel Cooper. Insieme abbiamo progettato la maggior parte dei manifesti per pubblicizzare gli eventi artistici del MIT e nel 1972 sono divenuta io stessa direttrice e ho collaborato con tanti artisti, tra gli altri con Ralph Coburn, che faceva parte dell’ International Typographic Style o Swiss Graphic Design.
Il suo stile, così potentemente creativo, particolare e immediatamente riconoscibile, è stato influenzato proprio dallo Swiss Style, che ha visto nei designer svizzeri Armin Hofmann, Karl Gerstner e Josef Müller-Brockmann i suoi più famosi promulgatori. Fondamentali sono il rigore grafico, la chiarezza, la leggibilità unite ad un’eleganza di stile dove l’uso dei caratteri tipografici diviene elemento di design che nulla regala al decorativismo. Ho trovato tutto questo nelle sue opere, illuminate da una creatività esplosiva e sorprendente che l’ha posta sulla vetta della fama internazionale a fianco di artisti famosi, Josef Müller-Brockmann per citarne uno…
Nel 1958 Thérèse Moll, designer svizzera che era stata assistente di Gerstner a Basilea, venne a lavorare per un breve periodo al MIT e così iniziammo a collaborare ed è grazie a lei che ho approfondito le nozioni sul grid method, la sua organizzazione degli spazi ma soprattutto la sua filosofia progettuale. Forse è stato il contributo più significativo del Swiss Style insieme ai caratteri sans serif, a bastoncino, e la preferenza di testo non giustificato. La storia del Graphic Design è lunga e affascinante e, come sempre, un filo lega le invenzioni e le trasformazioni che hanno segnato un cammino creativo ed in continua evoluzione. Sapeva che il termine graphic design fu coniato da William Addison Dwiggins nel 1922 e nello stesso anno Stanley Morison inventò il Times New Roman per l’uso esclusivo nel Times di Londra? Ora è il più usato al mondo! Io ho sempre cercato di coniugare la tradizione alla sperimentazione e come obiettivo principale credo di aver sempre avuto l’aspirazione a progettare un prodotto con un messaggio accurato, semplice e chiaro per tutti. Colori, caratteri tipografici, proporzione e divisione degli spazi… tutti elementi che devono attrarre e quindi coinvolgere lo spettatore che viene così invogliato a partecipare agli avvenimenti pubblicizzati. L’immagine visiva finale può essere creata interamente dal contenuto del messaggio e l’immagine stessa diventa il messaggio.
Nei suoi poster si mischiano, in proporzioni perfette, giochi di parole, caratteri tipografici, colori, fotografia, inventiva sfrenata e il suo background nella pubblicità le ha permesso di rinnovarsi continuamente e questa è forse la parte di maggior successo del suo design. Penso al poster del ’64 per il symposium “American Women in Science and Engineering”, un incastro intrigante del simbolo della donna e quello del ’61 “Goya: The Disasters of War”, la serie di 82 stampe create dal pittore e incisore spagnolo tra il 1810 e il 1820, dove l’uso del blood splat come immagine solitaria diventa una metafora visiva forte e chiara. E poi “The Moon Show” con quella luna appiccicata su di un cielo nero pece per festeggiare la missione dell’Apollo 11…
Ricordo quei poster di tanti anni fa… specialmente quello su Goya, devo ammettere, ha avuto un grandissimo successo ed ha contribuito alla valorizzazione della mia attività facendomi conoscere a livello internazionale. Quella macchia rosso sangue riporta inevitabilmente alle atrocità delle guerre di ieri e di oggi, alle morti e alle ferite di tanti uomini. Ricordo di aver avuto dei timori sull’accoglienza e la reazione del pubblico ma è stata una prova importante, direi fondamentale per convincermi definitivamente che immagini forti comunicano messaggi forti e le parole diventano inutili.
Un’immagine deve parlare da sola.
Quando progetto penso spesso che oggi, nell’era dell’evoluzione tecnologica con il primo computer Commodore venduto in oltre un milione di pezzi e ricordando il mio poster “The Computer From Counting to Cognition” del 1979… ecco… rifletto… che in fondo poco è mutato perché la forza prorompente delle figure stilizzate che gli uomini preistorici incisero nella roccia sono immagini “leggibili” che parlano da sole e inviano, ancora oggi, messaggi inequivocaboli raccontandoci storie senza parole con la potenza dei segni.
Jacqueline le rivolgo un’ultima domanda che riguarda il futuro: può anticiparmi a quale progetto si sta dedicando? E poi dovrà farmi una dedica ed un autografo su questo bellissimo catalogo…
Non le voglio nascondere nulla… ma i progetti per cui sto lavorando sono tantissimi. Il primo che mi viene in mente è il poster per “The Philips Glass Ensemble” e poi “Give Blood” una campagnna di sensibilizzazione importante dove l’immagine dovrà essere forte e chiara, dai colori netti in cui il rosso sangue sarà nuovamente protagonista. Ho imparato a non sottovalutare mai il pubblico a cui mi rivolgo perché ho sempre trovato delle rispondenze fantastiche, a volte inimmaginabili, e questo mi ha permesso di conservare una decisa concretezza legata ad un immaginario volubile che a volte mi trascina via. Ma io rimango qui, fortemente ancorata al mio tavolo da lavoro e saldamente legata alle proporzoni definite dal grid method!