Abbiamo incontrato Sara Pretelli, fotografa e filmmaker che vive e lavora a Londra, per farci raccontare il suo viaggio in Giappone alla scoperta di artigiani che con la loro passione e maestria, ripetendo gesti e rituali che si perdono nella notte dei tempi, producono statue in legno, occhiali, stoffe e cibi in luoghi di grande fascino che paiono cristallizzati nel tempo.
Sara hai fatto un lungo e appassionante viaggio in Giappone alla ricerca di tradizioni artigianali che fortunatamente sono ancora vive e rappresentano un ricco patrimonio culturale. Ma torniamo indietro nel tempo e raccontaci, prima di tutto, come è nata la tua passione per il Giappone e le sue tradizioni.
La mia passione per il Giappone risale praticamente alla mia nascita o quasi! Sono sempre stata appassionata di Manga e Anime. Mi ricordo come se fosse ieri i pomeriggi sul divano a guardare i cartoni animati con mia mamma: gli anni più belli della mia infanzia. Gli Anime rappresentano per me il mio mondo di evasione, il mio rifugio sereno. Attraverso Anime e Manga, va da sé, mi sono innamorata del Giappone e della sua immensa storia, della cultura e della gente. Ho avuto l’opportunità di visitare questo Paese meraviglioso molte volte e scoprire sempre di più il suo patrimonio culturale e le sue tradizioni, anche quelle più nascoste.
Maestro di tessitura, scultore in legno di statue raffiguranti Buddha, artigiani della lacca, birra prodotta con salsa di soia secondo un antico metodo tradizionale, il coltivatore di pasta di miso e quello di fagioli rossi. E poi occhiali realizzati rigorosamente a mano. Come sei riuscita a trovare tutti questi artigiani senza perderti nei meandri di strade giapponesi senza indirizzo e come è stata la loro disponibilità?
La ricerca delle varie tradizioni da filmare è stata mossa esclusivamente dalla mia curiosità. Volevo far vedere ‘altro’ di questo meraviglioso Paese. Di Sumo, Geishe etc. ne abbiamo sentito parlare molto… io volevo trovare qualcosa di cui non si sapesse quasi nulla. Qualcosa di unico e nascosto; e così ho iniziato la mia ricerca online. Inoltre, grazie ai molti contatti su territorio giapponese che ho raccolto negli anni, sono riuscita anche a comunicare abbastanza facilmente con i vari artigiani, grazie al supporto di traduttori locali. Per molti anni il mio lavoro di fotografa e filmmaker e le mie collaborazioni con agenzie di viaggio inglesi operanti in Giappone mi hanno permesso di entrare in contatto con persone magnifiche e realtà locali sconosciute al mondo occidentale. Io volevo raccontare una parte di Giappone che pochi conoscono.
I due documentari – Shoyu e Frames – e le fotografie sono il tuo diario di bordo, come le moleskine di Bruce Chatwin da allora divenute mitiche e simbolo di avventure, e noi abbiamo viaggiato con te, ma ora raccontaci i particolari del tuo viaggio alla ricerca di una creatività artigianale che a volte crediamo perduta. Descrivici le strade, gli odori, suoni e rumori, le persone che hai visto, quelle che hai incontrato e quelle che ti hanno aiutato. Cosa ti ha colpito di più in ognuno di questi artisti-artigiani che ama pervicacemente il proprio lavoro a cui si dedica con fervore e passione?
La cosa che mi ha appassionato molto del Giappone è la sua cura e rispetto delle tradizioni, la dignità della gente e il grande amore e passione per quello che fanno. Dello scultore in legno delle statue di Buddha ricordo ancora il suono dello scalpello che incideva il legno… poetico. Il fatto che questo scultore abbia 39 anni e che nel suo laboratorio insegni ‘il mestiere’ a ragazzi di 16-17 anni mi ha fatto bene al cuore. Il tramandare le tradizioni di generazione in generazione è parte della nostra identità, parte di noi.
Altro episodio che ricorderò per sempre è l’ospitalità e il calore della gente di Tanba – zona di campagna a due ore da Kyoto – la zona della coltivazione degli Azuki Bean. Nel periodo del raccolto, tutta la gente del paese va a dare una mano all’agricoltore per raccogliere i fagioli perché lui e la moglie hanno più di 80 anni e da soli non ce la potrebbero fare.
La cosa che ho ammirato di più in loro era la pura passione; in un mondo arido che guarda solo al profitto, vedere qualcuno che porta avanti la sua arte con passione è ammirevole. Il produttore di occhiali per esempio, dopo anni di esperienza a Tokyo e una carriera nella grande metropoli ben avviata, decide improvvisamente di tornare in campagna per portare avanti la piccola azienda artigianale di famiglia. Se non è amore questo…
Ti hanno raccontato tutti le storie della loro vita e l’inizio della loro avventura come il Sig. Yasuhiko Taniguchi e il Sig. Keisuke Ueki che citi in Frames? Esistono, e qualcuno le ha frequentate, scuole specializzate che purtroppo qui da noi ormai sono rare?
Per quanto riguarda il Fukui, la regione degli occhiali giapponese, ho trovato molte similarità con la nostra zona del Cadore, dove vengono prodotti gli occhiali dei più grandi brand di moda. Senza fare nomi, le grandi aziende hanno praticamente dato lavoro a tutta la regione, ma nel contempo hanno creato una concorrenza spietata con le realtà e i laboratori artigiani di piccole dimensioni. Le piccole fabbriche fanno fatica a sopravvivere, ma quelle che continuano a lavorare fanno dei prodotti di eccellente fattura, Taniguchi e Keisuke sono due esempi. Ho anche fatto visita ad uno studio di design di occhiali il cui proprietario ogni settimana va negli istituti tecnici della regione per insegnare i rudimenti del design di occhiali agli studenti; bellissimo!
Le tradizioni le hai percepite ancora vive, resistenti e futuribili in un Paese – terza potenza economica del mondo con un livello di alfabetizzazione quasi al 100% – che è all’avanguardia nel campo della robotica. Forse il suo fascino sta proprio nel fondere antichi rituali con l’uso della tecnologia più avanzata.
Esattamente. Ha centrato il punto! Quello che amo del Giappone è proprio il grande equilibrio e la grande armonia che è riuscito a creare fra cura e rispetto delle tradizioni, e innovazione tecnologica all’avanguardia.
Le fotografie e i documentari ci descrivono un Giappone che abbiamo idealizzato nella mente dove tutto pare elegantemente programmato e uomini ieratici – penso allo scultore in legno il cui viso ricorda quello dei Buddha che scolpisce – lavorano in spazi affascinanti che ci riportano indietro nel tempo. Un contrasto stridente con la vita frenetica di Tokyo, i giovani Hikikomori che rifiutano il mondo, le ragazze trasformate dalla moda Ganguro. A proposito di donne nelle tue immagini non appaiono quasi mai, ricordo la timida moglie dell’artigiano di shoyu… È stata una scelta voluta, obbligata o altro?
La società giapponese, soprattutto le vecchie generazioni, dava molto spazio all’uomo e la donna era relegata al ruolo di comprimaria. Dai miei documentari traspare proprio in maniera velata questo cambio da vecchie a nuove generazioni; l’apprendista dello scultore è una ragazza, mi piaceva proprio sottolineare questo contrasto. Mi hai colto in flagrante perché ho in progetto altre cose interessanti sul Giappone, proprio in chiave rosa. Vedremo.
Con il tuo lavoro, che colpisce per le immagini poetiche e incuriosisce per le storie dai temi così particolari, hai documentato testimonianze che trasferiscono verso il futuro saperi e tradizioni per non dimenticare identità e testimonianze. Un lavoro importante che deve certamente essere valorizzato. Hai già dei progetti in merito?
Sì ho in mente altri progetti. Oltre al già citato progetto ‘rosa’, vorrei raccontare qualcosa anche sul nostro Paese sempre legato all’artigianalità e al tramandare il sapere di generazione in generazione.
Vi farò sapere sicuramente le mie prossime mosse…
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