Classe ’98, Evelin Mazzaro è una giovane fotografa con base itinerante tra Padova e Venezia, dove studia conservazione e gestione dei beni culturali alla Ca’ Foscari. I suoi ritratti delicati e a tratti vagamenti surrealistici ci parlano di un mondo visto attraverso un occhio giocoso e intrinsecamente femminile. Abbiamo fatto due chiacchere con lei sul suo processo creativo e sul concetto di female gaze che permea la sua opera.
Come e quando ti sei approcciata alla fotografia?
Primissimo approccio in quinta elementare, ci avevano portato a fare una gita fotografica in Prato della Valle, a Padova. Avevo con me una compatta a rullino, i compagni digitale, quindi sapevo di dover selezionare ciò che vedevo. Avevo chiamato il mio progettino “i riflessi”, perché avevo scattato solo ciò che si rifletteva nell’acqua. Presi ottimo.
E adesso continui a prediligere l’analogica o sei passata al digitale?
In realtà non prediligo nessuna delle due, tante delle foto che sembrano analogiche in realtà le ho fatte in digitale, a volte assemblo obiettivi di una sul corpo macchina dell’altra, non mi importa con quale cosa scatto. Però il mio approccio è rimasto sicuramente molto “selettivo”
Cosa intendi con “selettivo”?
So molto bene cosa non mi piace in uno scatto, quindi mi piace prendermi il mio tempo, costruire la scena a mio modo. Non sono una mitragliatrice fotografica ecco, il che a volte può essere una pecca perché sono un po’ più lenta rispetto ad altri, ma preferisco che la foto sia soddisfacente se non al primo, al secondo o al terzo scatto.
Mi sembra di capire che sei una perfezionista
Perfezionista assolutamente no, ma ho delle fissazioni ineludibili.
Ecco, raccontaci qualche aneddoto rispetto a qualcuna di queste fissazioni
Bhè le mie fissazioni riguardano principalmente la scelta dei soggetti. Una persona quando guarda una foto non pensa mai al momento effettivo in cui è stata scattata, la preparazione di una scena ecc. quindi se io ho deciso di piazzare delle uova dentro a un preservativo, tu vedi delle uova dentro un preservativo, io vedo me alle 8 del mattino alla cassa dell’Aliper con i Durex e una confezione di uova sotto il braccio, ahah!
Parlaci un po’ del tuo processo creativo: segui degli step precisi, scatti con costanza o solo nei momenti d’ispirazione…
Scatto con una certa costanza ma perché ne sento la necessità, ho talmente tanti stimoli ed ispirazioni quotidiani che arriva un momento in cui questi si allineano nella mia testa: okay ho capito come fotografare quest’idea, oggi si scatta. A volte gli slanci arrivano a processo iniziato, mi è capitato spesso di trovare la chiave di volta in corso d’opera, altre volte invece cercando qualcosa finisco per trovare di meglio da inseguire. Il punto di partenza in ogni caso è sempre legato a un immaginario appartenente alla mia sfera estetica che voglio mostrare a chiunque sia in grado di apprezzarlo.
Ecco, a proposito della tua estetica, direi che quest’ultima potrebbe facilmente essere associata al concetto di “female gaze”, terminologia che sta trovando sempre più spazio nella letteratura contemporanea per definire l’estetica e le tematiche che accomunano giovani artiste che lavorano su un immaginario femminile che ne scardina la rappresentazione convenzionale, rivendicando una relazione col corpo, con la bellezza e con la sessualità vissuta per il piacere proprio di essere donna e non per il piacere di un uomo (quello che la critica cinematografica e femminista Laura Mulvey definì per l’appunto “male gaze” nel 1975): giusto per citarne alcune, la fotografa e filmmaker Petra Collins e il collettivo The Ardorous, fondato dalla stessa e da altre 30 personalità ormai affermate nello star system (tra cui Arvida Byström, Dafy Hagai, Harley Weir), il duo Prue Stent e Honey Long, ma anche esempi “insta-famous” come Cecile Hoodie. Quanto ti senti vicina a questo concetto (in maniera consapevole o inconsapevole)? Ci sono artisti a cui ti ispiri o ti sei ispirata nello sviluppo della tua estetica?
Mi fa molto sorridere che tu abbia citato queste personalità specialmente The Ardorous, perché ricordo che la linea morbida che ho preso qualche anno fa come inizio di un percorso appunto “female gaze” era ispirata ai lavori sia fotografici che grafici raccolti nel libro “Babe” curato da Petra Collins. I macro di Maisie Cousins sono stati una grande molla di partenza. Tuttavia devo dirti che cerco di non ispirarmi mai veramente a nessuno, piuttosto studio una determinata corrente (anche non necessariamente in campo fotografico) o per usare alcuni aspetti di essa a mio favore, o, se questa è contemporanea, per tentare in qualche modo di superarla. È molto difficile non seguire un flusso, un modo, una tendenza, me ne rendo conto, alla fine siamo esseri umani e la nostra vita è fatta di risposte all’ambiente che ci sta attorno, però finché ci provo almeno so che il mio lavoro è attivo.
Tu per esempio che ruolo attribuiresti a Instagram e ai social nella tua pratica artistica?
Sicuramente non posso attribuire il merito di tutti gli stimoli estetici al mondo di Instagram, anzi, ma trovo ipocrita fare gli schifati dalla dinamica social, i “vecchio stampo”. Mi spiace ma è la base del linguaggio odierno per quanto mi riguarda, ti permette di dare, ricevere e allinearti (o differenziarti). Abbiamo il potere di vedere il lavoro delle persone che stimiamo, trovare soluzioni efficaci per rappresentarci e creare uno spazio con le parti evidenti del nostro carattere. Ovvio il tutto è mediato dal nostro gusto ma qui torniamo per l’appunto al potere selettivo di cui si discuteva nelle prime domande. È un attrezzo del mestiere come un altro, puoi usufruirne se lo desideri.
Dici che la selezione di foto che hai scelto per l’intervista ha come filo conduttore il ritratto “inteso in maniera un po’ ampia”. Mi spiegheresti meglio cosa intendi con questa affermazione?
Secondo me l’idea di ritratto è un po’ riduttiva, alla fine “ritrarre” vuol dire sia raffigurare che portare a se, ritirare. Ciò per me significa celare una parte di quello che stai portando via nell’atto di fotografare a una parte di pubblico, per escluderne una fetta, quella che superbamente penso non possa capire il mio punto di vista. Questa serie è un sunto di questo processo.
Come a voler rivendicare un qualcosa di intimo che viene celato nell’atto stesso in cui si crea un’immagine destinata ad un pubblico?
Esattamente. È una sfida “riesci a vedere quello che vedo io?”
Tra le tue foto c’è un ritratto di Giorgia Andreazza, giovanissima designer e hit girl della scena milanese che sta molto facendo parlare di sé: come vedi le collaborazioni col mondo della moda?
Le collaborazioni in campo moda sono quelle che tirano fuori più di tutte una crescita estetica a tutti i livelli. Ho meno libertà di gioco ovviamente perché non sono l’unica ad avere voce in capitolo, ma chi mi cerca lo fa perché vuole me, non perché vuole una fotografa.
Mi piace creare non solo sintonia ma elettricità con chi collaboro, affinché si possa trovare il giusto mix che accenda le teste di tutti allo stesso modo, lo trovo quasi magico
Sul tuo profilo c’è un link che rimanda al collettivo Cipria: come è nato e in cosa consiste? Cos’è Curated by Girls e come vi ci inserite?
Cipria è un collettivo che adesso compie il suo settimo compleanno, nato dalla volontà di scardinare i preconcetti sul clubbing femminile. Ha dato una possibilità a tutte le teste che si sentivano strette nella realtà veneta, di trovare un evento con un approccio diverso alla musica, al dance floor e alla donna. Il collettivo oltre a sfornare eventi, su quest’onda porta avanti parallelamente dei progetti, l’editoriale che si trova su Curated by Girls ne è un esempio. È un magazine based in Berlin che raccoglie produzione artistica femminile in giro per il mondo. Ho deciso di lasciare quel link nel mio profilo perché abbraccia queste tre grandi responsabilità: il mio lavoro come fotografa, Cipria e l’arte (che lascia spazio alla voce femminile).
Un sogno nel cassetto?
Solo uno?? Ahah! Partendo in piccolo, mi piacerebbe raccogliere la mia produzione in un libro.
Evelin è su Instagram col nome @evelin_peach