Le manifestazioni artistiche che usano muri, pareti e pavimenti come tele stanno mettendo la cultura e la creatività ai piedi delle strade trasformandole in gallerie d’arte a cielo aperto. Vengono promossi sempre più interventi urbani con la street art, al fine di cambiare la prospettiva che abbiamo delle città grigie e monotone per lasciare spazio al colore che riempie le nostre vite ed anime.
Un intervento decisamente a favore del colore è “Piazze Aperte”, il progetto di riqualificazione urbano promosso dal Comune di Milano e da Jungle, agenzia milanese indipendente specializzata in attivazioni urbane e campagne di comunicazione non convenzionale. Il progetto prevede un cambio look per due piazze di Milano affidate all’esplosiva creatività di Camilla Falsini: Piazzale Loreto e Piazza Tito Minniti.
In Piazzale Loreto, l’artista è partita dalle strutture urbane della città ridisegnate attraverso semplici forme geometriche e, con un po’ di attenzione, si noterà che gli edifici e le strade si intrecciano per formare alcune lettere che compongono proprio la parola LORETO. Il fondo antracite, è stato scelto volutamente per dare maggior risalto alla scritta che esplode in modo caleidoscopico grazie a colori pieni e sgargianti.
Per quanto riguarda Piazza Tito Minniti, le lettere che formano la parola ISOLA raccontano la sua storia, come la I che diventa un grattacielo che simboleggia la parte più avveniristica della zona, mentre la A una casa per sottolineare che il quartiere è reso vivo anche da chi lo abita. Data la nuova area pedonale della piazza, l’artwork è stato pensato per essere anche un playground per i più piccoli; sono stati infatti inseriti degli elementi di gioco per i bambini.
Abbiamo avuto il piacere di fare qualche domanda a Camilla per farci raccontare il suo lavoro.
Ciao Camilla! Raccontaci un po’ del tuo ultimo lavoro per “Piazze Aperte”. Come e quando è nato?
Il lavoro per Piazze Aperte si compone di due diversi interventi in due piazze di Milano. È nato perché l’agenzia Jungle, quando ha deciso di partecipare al bando indetto dal Comune di Milano, mi ha contattata per chiedermi di seguire tutta la parte creativa e progettuale. Per il lavoro più grande, quello in Piazza Tito Minniti nel quartiere Isola, sono partita dalle peculiarità del quartiere e ho voluto inserirle all’interno dell’opera, che si compone di enormi lettere ognuna delle quali è riferita ad un diverso aspetto del luogo: ad esempio, un grattacielo omaggia la componente avveniristica del quartiere col famosissimo Bosco Verticale , mentre la lettera L è fatta da un insieme di tracciati di diverso colore che si sovrappongono creando una armonia di colori, riferimento alle tante vite e alle tante anime e provenienze di chi vive lì. C’è poi una casa, c’è la dimensione del giorno e della notte, c’è un’isola stilizzata che vuole essere un rimando alla natura e al verde. In realtà la parola ISOLA si legge solo se si sa cosa cercare, è una sorta di gioco nascosto, perché parliamo di forme astratte, enormi, messe secondo vari orientamenti. Per Piazzale Loreto, che è un quartiere forse con un’identità meno forte ma caratterizzato da tratti molto urbani, inizialmente avevo pensato di creare un omaggio alla città, e alle sue architetture che si incastrano e svettano. In un secondo tempo anche qui è stata aggiunta, nascosta nell’immagine, la parola Loreto.
Che tecnica usi per realizzare i tuoi artwork?
La componente più importante del mio lavoro è quella di illustratrice. Per cui nel creare un artwork che sarà riportato su un muro, un’illustrazione per una rivista o un libro, io lavoro allo stesso modo, prettamente in digitale. Ovviamente poi pensare e progettare un’opera pubblica, su muro o a terra come in questo caso, presuppone tutta una serie di considerazioni in più legate alla dimensione pubblica, all’esecuzione, all’impatto, etc.
Come scegli cosa rappresentare? Dove trovi l’ispirazione?
Quando illustro parto da una storia, da un articolo di giornale, da un testo o a volte, da una parola. Nel lavoro più strettamente artistico ci sono sicuramente dei temi ricorrenti: uno tra questi l’evoluzione delle specie. Ultimamente sono affascinata dalle forme nella loro essenza, mi capita sempre più spesso di ragionare partendo dalle forme stesse utilizzandole come simboli o concetti. Un lavoro del genere è quello realizzato a Milano, di cui parlo più avanti. Per cui il concetto alla base della teoria dell’evoluzione – la varietà delle forme nasce da una radice unitaria che si adatta al mutare delle condizioni, tutte le specie hanno elementi in comune – viene visualizzato attraverso forme geometriche, quasi dei moduli con cui giocare. Linee molto essenziali permettono una grande libertà: un triangolo può diventare un naso, un orecchio felino o la punta di una coda a seconda di dove lo si mette. Altre volte uso i poligoni come se fossero dei concetti, un dialogo tra due o più creature come ad esempio nel muro “Chimere Impossibili” a Milano o nella serie di sei piccoli muri “I 6 principi del Serendippo” a Bologna. In altri casi, è la propria essenza che si modifica durante un viaggio come nel muro realizzato sul Teatro Comunale di Calcata. Mi piace lavorare con forme semplici e pertanto faccio sempre questo esempio: “è lo stesso meccanismo di alcuni giochi per bambini. Un cubo di legno può diventare mille cose, un veliero realistico e fedele alla realtà no. È come se venissero lasciate aperte mille possibilità.”
Quali sono i tuoi riferimenti artistici più importanti?
I miei riferimenti sono moltissimi. Sarò banale ma Picasso mi ha sempre emozionato moltissimo. Amo molto Matisse, soprattutto le opere fatte con carta ritagliata, dai colori forti e vibranti. Il suprematismo russo. Depero per la sua sintesi, per i volumi e per l’uso dei colori. Munari è per me un maestro nel metodo, oltre ad aver creato capolavori in moltissimi campi. È stato uno di quei personaggi che hanno segnato il ‘900, con la sua visione del design, della creatività e con le sue opere meravigliose, ironiche. Mi ispira anche molto perché non si è mai precluso niente, a livello espressivo e nei supporti, nei materiali, nelle tecniche.
Quale tuo artwork ha riscosso più successo o a quale sei particolarmente legata?
Parlando di muri, sono molto legata a quello che considero quasi un dittico, pur essendo due opere che si trovano una a Palermo e l’altra a Torino. A Palermo, per Manifesta, mi avevano chiesto di immaginare un’opera che avesse come tema Palermo come città dell’accoglienza. Per cui ho raffigurato Federico Secondo, questa figura storica era perfetta per rappresentare l’unione armonica di culture diverse, e inoltre il luogo dove si collocava l’opera, perché lui visse in una Palermo davvero città dalle mille culture e dalle mille anime, quella islamica al fianco di quella occidentale. Circa un mese dopo, Lavazza mi ha chiesto di rappresentare la parità di genere per il progetto Toward 2030. Mi è subito venuta in mente Christine de Pizan, prima scrittrice di professione e considerata una delle prime femministe della storia. Alla fine, ne è nato un muro speculare e parallelo a quello di Palermo: due figure storiche molto importanti, raffigurate su fondo bianco. Quella maschile usando una palette di colori più chiari e freschi (forse anche influenzata dai colori di Palermo, città solare e di mare) mentre quella femminile, usando colori caldi e accoglienti. Entrambi sono visti frontalmente, come icone bizantine, sono in piedi, ci guardano e poggiano i piedi su alcuni elementi: un cavallo il primo (a dondolo perché in realtà Federico II è raffigurato bambino), una città medievale la seconda. Entrambi, sempre come icone medievali, tengono in mano alcune cose: lei una penna e un libro, lui uno scettro come simbolo di potere ma in questo caso con l’effige di un coniglietto, simbolo di dolcezza e mitezza ed una pianta come riferimento al suo amore per le scienze e la natura. Uno dei miei lavori che ha avuto più successo è forse il muro realizzato a Milano per Milano GreenWeek e Napapjiri, sul quale ho raffigurato forme semplici poi assemblate nella parte superiore del muro, lavorando sul concetto di evoluzione ed esprimendolo appunto usando forme semplici come elementi base per la complessità, usandole quindi a livello simbolico.
Che tipo di bellezza/messaggio vuoi trasmettere con la tua arte?
Non mi piace pensare di trasmettere un messaggio, non amo pormi nell’ottica di insegnare una verità. Mi piacerebbe però smuovere qualcosa nelle persone, anche semplicemente un’emozione o un ricordo, o una riflessione su qualcosa a cui non avevano mai pensato, o che non conoscevano. Forse anche per questo uso un tratto molto essenziale, per lasciare più libertà a chi osserva, libertà di vedere nell’opera anche altro oltre a quello che ci ho messo io.
Cosa ha significato per te questo periodo e come cambierà (se cambierà) la street art?
Ovviamente durante questo particolare anno che stiamo vivendo, ho lavorato molto di più a casa come illustratrice, non potendo viaggiare. Inoltre, progetti e mostre sono stati annullati, rimandati, trasmessi online o mostre fatte di affissioni pubbliche invece che in spazi chiusi. Il grande valore di tutto ciò è che le persone non hanno smesso di produrre arte e cultura, hanno trovato altri modi.
Progetti per il 2021?
Riprendere a viaggiare e vorrei andare lontanissimo, mi attira molto l’estremo Oriente. E poi continuare a fare il mio lavoro spaziando su tanti fronti diversi: muri, editoria, come già accade, ma magari anche altro. Durante il primo lockdown ho ripreso a creare opere manualmente, dei collage. Spero, tra un lavoro e l’altro, di riuscire a continuare.
Guarda tutti i lavori di Camilla Falsini sul suo sito e su Instagram.