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A San Paolo non c’era mai silenzio. Ovunque fossi, a qualsiasi ora del giorno o della notte ci facessi caso, c’era sempre di sottofondo un continuo brusio: motori, musica, urla, voci e vocii… Per uno come me che viene dalla silenziosa e monotona provincia della Pianura Padana è stata un’esperienza quasi trascendentale riuscire a comprendere (anche solo vagamente) logiche ed equilibri della megalopoli brasiliana.
A San Paolo, in quella grigia foresta di cemento, acciaio e vetro, tra elicotteri, auto blindate e piante tropicali, ci sono finito durante il mio percorso universitario e, proprio lì, nel tentativo di introiettare una realtà così complessa, sono incappato nelle fotografie di Tuca Vieira. È bastata una frase lapidaria della mia professoressa di urbanistica – “Tommaso, cerca su Google le foto di Tuca Vieira. Guardale, studiale e inizierai a capire le nostre città” – per sbattermi in faccia una babilonia di disparità. Il lavoro di Tuca Vieira è diventato così una guida che mi ha permesso di guardare a San Paolo, al Brasile e alle città con occhio differente.
La pandemia sta rendendo drammaticamente evidenti, su scala globale, le fragilità del nostro sistema economico: le città vuote, fotografate in ogni angolo del globo, non sono che la punta dell’iceberg di questo fallimento. Personalmente, come stai vivendo questa situazione? Come la state attraversando tu e la tua città?
In Brasile, per diversi motivi, stiamo attraversando un momento difficilissimo. In questo Paese le difficoltà si sovrappongono: abbiamo i problemi di sempre, come la disuguaglianza e l’ingiustizia sociale ma, soprattutto, abbiamo un governo criminale, molto probabilmente il peggiore della storia del nostro Paese, a cui si somma ora la pandemia. Non è per niente facile.
Per quanto mi è possibile, provo a trasformare il quotidiano in qualcosa di produttivo. Ad esempio, ho realizzato una serie di fotografie della città vuota durante la pandemia, intitolata semplicemente 2020. Ho pensato che, come fotografo e giornalista, avevo il dovere di immortalare questo momento per i posteri. Il risultato coglie due aspetti: da un lato, infatti, trovo triste incontrare la città senza la presenza delle persone, priva di vita.
Dall’altro, mi è stato possibile vedere la città in modo inedito. Il vuoto e il silenzio mi hanno permesso di osservarla con un certo distacco e notare così quegli aspetti che normalmente vengono nascosti dal caos quotidiano. In ogni caso, la città soffre molto. Infatti, se pensiamo che la città, per definizione, è un agglomerato di persone, la sua stessa ragion d’essere è messa in discussione.
Il pianeta Terra sembra rimpicciolirsi ogni giorno di più. Tra i viaggi sempre più brevi e le culture sempre più uniformi, ci sono migliaia di universi che scompaiono. Per questo, nonostante San Paolo sembri un unico grande agglomerato urbanizzato, mi ha colpito che tu sia andato a spasso cercando di coglierne le unicità. Cosa ti ha spinto a gironzolare come un esploratore (più che flâneur) per la città e come mai hai deciso di raccogliere queste tue esplorazioni in un atlante? Possiamo dire che sia nata prima l’idea di costruire un atlante o, a un certo punto, ti sei accorto che lo stavi già costruendo con il tuo archivio fotografico?
In una città come San Paolo, con 20 milioni di abitanti, e una storia relativamente breve, sei sempre uno straniero. Io stesso, che sono nato qui, non mi sento di appartenere alla maggior parte di questo gigante territorio. Concordo pienamente con te quando dici che ho percorso la città come un esploratore. Mi sentivo esattamente così quando, la mattina, prendevo la macchina per dirigermi verso quei territori lontani, come quando ci si imbarca su una nave e si attraversa l’oceano verso una qualche isola sconosciuta. Come un esploratore, ero mosso dalla curiosità e dall’avventura. E, giustamente, l’atlante è tanto uno strumento di navigazione quanto una fonte inesauribile di immaginazione (il fotografo Luigi Ghirri ha ben esplorato questo aspetto). Ho costruito questo Atlante così da poter io stesso conoscere la mia città. È vero che, in gran parte, mi è ancora sconosciuta, ma ho sentito che dovevo fare questo gesto: era una questione d’identità e d’appartenenza.
Già dal titolo, Atlante Fotografico della Città di San Paolo e Dintorni, rievoca inevitabilmente un mondo romantico e lontano dove c’era fiducia nella scienza e voglia di scoprire come sono fatte le cose e, soprattutto, le terre e le città più lontane. Ora, pensare che un fotografo abbia fatto un atlante di un mondo conosciuto e conoscibile, ai più suona un po’ come un controsenso: basta uno smartphone per affacciarci in ogni angolo della Terra. Davanti a questa nostra realtà tristemente priva di mistero come hai deciso di organizzare il tuo lavoro e conseguentemente il tuo Atlante?
Questo lavoro ha questa contraddizione interna. È un lavoro documentale che cerca di mostrare come la città è. Ma, sotto questo aspetto, è anche inutile, dal momento che tutti questi luoghi (e molti altri) sono già stati registrati fino allo sfinimento da strumenti come Google Street View. Quindi perché fotografare la città? Perché preoccuparsi di qualsiasi tipo di documentazione? La risposta è che, se deleghiamo l’esperienza del mondo a questi meccanismi virtuali programmati e soggetti a interessi privati, stiamo costruendo un’esperienza totalmente alienata della vita, senza quella che chiamiamo empatia.
Pertanto, questo lavoro può essere interpretato come un’affermazione dell’esperienza umana. Di fatto, sono stato in tutti questi luoghi, ho spostato il mio stesso corpo per essere in questi luoghi. Questo gesto semplice e banale si trasforma in un atto di resistenza davanti alla virtualizzazione del mondo.
Mi piace il cortocircuito che crea l’Atlante. Per necessità organizzativa e narrativa, si divide lo spazio geografico in parti uguali. Poi, per esperienza, impariamo che non esistono quadrati uguali: basta attraversare una strada o semplicemente girare l’angolo per vedere quante città ci sono in una città. Come ti sei mosso nella città? Come organizzavi i tuoi spostamenti? Come sceglievi i luoghi o le inquadrature che diventavano il volto di quel “quadrato” di città?
Come hai intuito, il lavoro ha due livelli di lettura. C’è un livello “pseudoscientifico” che, nel metodo, divide il territorio per esplorarlo meglio, come in uno scavo archeologico o in una strategia di guerra. Chiaramente, tutto questo ha una certa ironia, un aspetto ludico che si riferisce ai giochi letterari di Julio Cortázar o di Georges Perec. C’è però anche un livello di lettura soggettiva che non può essere controllata. Ognuna delle mie incursioni esplorative era soggetta al caso, al tempo e all’imprevisto.
Ho scelto i luoghi tentando di costruire una specie di mosaico della città, tra aree industriali, centri commerciali, negozi, palazzi storici, edifici moderni, fermate del bus, padarias, chiese, piazze, ferrovie, boschi, fiumi e tanti luoghi anonimi. Evitavo tanto il monumentale quanto l’eccessivamente pittoresco. In altre parole, cercavo sempre una “visione media” della città che corrispondesse il più possibile all’esperienza a San Paolo.
In questo “gioco” analogico e quasi nostalgico di questa ricerca, mi ha entusiasmato vedere come ti spostavi per la città con quel treppiede e quella stupenda (e certo non tascabile) macchina fotografica. Perché hai scelto questo approccio “slow” in una città caotica e complessa come San Paolo?
Sì, ho prodotto 203 fotografie di grande formato, in pellicola da 4×5 pollici. Per ognuno di questi territori ho scattato solo una foto. Questo metodo aveva lo scopo di rallentare deliberatamente il processo fotografico per potermi rivelare aspetti della città che non compaiono nella frenetica vita quotidiana.
È stata anche un’opportunità per riflettere sulla quantità allucinante di immagini che produciamo in ogni momento, soprattutto ora che abbiamo i telefoni cellulari e la fotografia digitale. Alla fine, qual è il ruolo del fotografo oggi, nel mondo dell’eccesso di immagini? Secondo me, visto che tutti producono molte fotografie, il fotografo deve essere colui che realizza immagini che possano generare una determinata riflessione e che non siano solo la pura e semplice registrazione visiva di una data situazione. Il fotografo deve avere coscienza del processo fotografico, deve sapere quando è il momento di arrendersi o quando deve essere sospettoso del suo fascino. La fotografia dovrebbe farti pensare.
Sembra che ormai ogni tipo di narrazione, da quella politica fino a quella dell’intrattenimento televisivo, abbia abbandonato ogni possibilità di creare nuove utopie per lasciarci sguazzare nelle distopie. Certo, i fatti di tutti i giorni non aiutano… tra i vari “Italia, Brasil, America… first”, l’egoismo, il vantaggio personale a ogni costo, sembrano guidare anche ogni scelta collettiva. Una volta ho visto una fotografia di una scritta fatta sui muri di San Paolo che recitava: “O URBANISTA DE SP É O CAPITAL”. Cosa hai visto percorrendo San Paolo? Cosa ti hanno raccontato le sue strade? Secondo te esiste una possibilità di cambiamento o le tue fotografie sono l’ennesima prova del successo della distopia?
Distopia è una parola forte ed è preoccupante che faccia sempre più parte del nostro quotidiano. Non è un caso: viviamo in un momento in cui è molto difficile vedere il futuro. San Paolo è, senza dubbio, un esempio di città costruita per il capitale e dobbiamo ricordare che è stata, tra le grandi città, quella che è cresciuta più rapidamente durante buona parte del ventesimo secolo. Da paesino di provincia, in poco più di 50 anni, si è trasformata in una delle maggiori metropoli del mondo. È chiaro che è stata costruita con le storie di persone venute qui da altre parti del Brasile o da altri Paesi. Molte persone hanno stabilito una relazione affettiva con la città. Ma la verità è che San Paolo è una città dedita al lavoro, dove le persone sono venute per lavorare, e la città riflette questa relazione d’interesse. Questa miscela di gigantismo urbano e mancanza di pianificazione in aggiunta al capitalismo periferico e alle difficoltà sociali di un Paese come il Brasile, la rende una città dura e difficile.
Io voglio davvero credere che la pandemia possa permettere una riflessione profonda. Non so esattamente dove andremo ma so che non possiamo tornare nel punto in cui eravamo. Il mondo prima del COVID stava andando verso l’abisso, come una locomotiva fuori controllo. Io spero – e credo che sia assolutamente possibile – in una presa di coscienza da parte della popolazione.
Per chiudere questa intervista voglio farti una domanda personale. Una volta, un ragazzo cubano, incalzato dalle nostre domande sulla sua stupenda nazione, disse: “Se un gringo come te volesse capire Cuba dovrebbe aprirsi la testa, togliersi il cervello e mettersene uno dei nostri”. Ovviamente questa sarebbe una terapia d’urto con non pochi effetti collaterali, ma se tu fossi stato la mia professoressa di urbanistica, cosa avresti detto e mostrato a un rintontito gringo piombato dalla sera alla mattina a San Paolo?
Penso che la città sia la più straordinaria realizzazione umana. Qui si raccolgono i desideri, i fallimenti, le passioni, le ambizioni e le delusioni di milioni di persone. Vedo la città come un grande laboratorio per comprendere le relazioni umane e uno specchio dei nostri successi e fallimenti. In modo particolare San Paolo, la grande metropoli brasiliana, dove queste contraddizioni umane si rivelano in forma esplicita e senza filtri.
Per conoscerla ci vuole generosità e pazienza: solo così puoi scoprirne gli incanti, che non sono pochi. Sotto una dura superficie c’è una vitalità che ho ritrovato in pochi luoghi del mondo. Chiunque frequenti la vita artistica e notturna della città lo noterà. Direi che, nel mondo in cui viviamo, così instabile, così determinato dalle relazioni commerciali, così orientato al successo personale e al trarne vantaggio, è tempo di esercitare lo spirito collettivo. Abbiamo bisogno di più compassione. Per me la compassione e la curiosità sono i migliori strumenti di conoscenza.