Foto in evidenza di Leonardo Morfini
Wilson è il nome del pallone che un irriconoscibile Tom Hanks nel film Cast Away recupera sull’isola deserta dove approda in seguito ad un incidente aereo. Wilson è il suo unico amico, è l’unico residuo di vita a cui appigliarsi per guadagnarsi la sopravvivenza. Un oggetto di uso comune, come un pallone da volleyball, può acquisire per ognuno di noi un differente significato simbolico, storico, affettivo che si conserva segretamente nella memoria di quell’oggetto. Nelle tele di Anna Capolupo non è semplice cogliere l’intimo significato ma è facilissimo scorgere una gran quantità di oggetti nati dall’osservazione del reale, della città e ultimamente anche dei suoi sogni. Nella nebulosa di colori e sfumature, nella sovrapposizioni di forme e figure, l’oggetto è il soggetto che ha accompagnato sempre l’artista, originaria di Lamezia Terme e oggi con base a Firenze. Da un racconto della collettività in cui il paesaggio urbano, la periferia e i suoi scarti erano protagonisti, ora la pittrice si affaccia alla rappresentazione di ambientazioni più intime e private, nature morte che vogliono raccontare un po’ più di se’, dei suoi ricordi e della vita che si rivela nel sogno. Ispirata dal surrealismo di artiste come Meret Hoppenheim e Leonora Carrington, oggetti della vita quotidiana o creati nel suo studio, accompagnati da apparizioni di figure umane o animali, si stratificano come piccoli passi di una memoria nostalgica e premurosa. Ma se tra tutti questi oggetti da cui è immersa la sua vita e la sua pittura ne dovesse scegliere uno, quale porterebbe su un’isola deserta? L’abbiamo guidata in questa intervista alla risposta che più di tutte ci ha generosamente restituito attimi della sua storia.
A cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto lavorando sulla natura morta. Lavoro ancora su carta e dipingo olio su tela. Sono tornata ad una pittura classica antecedente al periodo dell’Accademia cercando di parlare di me stessa, di cose più intime. Rispetto ai precedenti lavori sul paesaggio urbano, questi ultimi non se ne discostano molto perché dagli oggetti abbandonati per le strade, nelle case e nelle fabbriche mi sono spostata verso l’oggetto che si identifica nella natura morta. Ho aperto anche un ciclo di lavori sul sogno che è iniziato durante la quarantena.
Parliamo di quest’ultimo ciclo. La dimensione del sogno è qualcosa con cui hai sempre convissuto o si è manifestata nel periodo di quarantena? Cosa ti affascina e cosa ti spaventa di più del sogno tanto da indurti a restituirlo in immagine?
Io ho sogni e incubi che mi porto dietro da tantissimi anni, che mi sono scritta e che ricordo perché hanno lasciato un forte segno in me. Ho sempre pensato di doverli rappresentare ma prima d’ora non l’avevo mai fatto, forse per paura. In questo periodo di quarantena, in questo cambiamento drastico di vita, ho iniziato a fare dei sogni pazzeschi che mi rimanevano per giorni impressi nella mente. C’era tutto quel tempo disponibile e avevo voglia di prendere in mano questa parte più intima e onirica di me. Così ho deciso di partire dai sogni fatti in quel periodo. Da questo bisogno ho piano piano dipinto anche tutti gli altri. Mi sono lasciata influenzare da racconti di sogni, o sogni di scrittori. Ho letto molto sul tema, mi sono avvicinata alle surrealiste donne, da Meret Hoppenheim a Leonora Carrington e tutti quelli che nella dinamica del sogno hanno costruito la loro arte. Per non dimenticarli, segno tutti i sogni che faccio e da questi intingo per riportarli nella mia quotidianità. Mi sto convincendo sempre di più del fatto che i sogni ti parlano del vissuto quotidiano. Mi affascina il pensiero di Leonora Carrington quando dice che il sogno veicola la sua realtà e quell’essere talmente influenzati dai sogni da non intervenire nella realtà. I sogni ti inviano dei messaggi che sono anche molto simbolici.
Ho sognato la morte di mio padre migliaia di volte ed è affascinante il fatto che si dica sempre che le persone che compaiono nei sogni sono solo parti di te. In questo senso i sogni diventano specchio di se stessi.
Come ti influenzano le storie che ascolti o che leggi? E qual è la storia più bella che hai raccontato?
Le storie degli altri mi influenzano e mi avvicino a storie che mi appartengono. Ho fatto un quadro su questo. Ero in macchina, ascoltavo i racconti di Camilleri sulla notte dei morti in radio. Era il 2 novembre. Lui parlava di questi pupi, vere e proprie sculture di zucchero che tradizionalmente venivano regalate ai bambini in quella ricorrenza. Nel suo racconto quando i bambini andavano a dormire (quindi nel sogno) arrivavano questi cavalieri meravigliosi nel buio della notte. Da questa immagine ho realizzato un quadro di un cavaliere in fiamme, con un bambino che nel buio si nasconde dietro una pianta di appartamento, sveglio ma dormiente nel suo nascondersi. Sembra una grande natura morta in bilico tra la dimensione onirica e la realtà. Venendo dal sud sono storie che mi appartengono e che affronto anche nella pittura.
A volte non espressamente dichiarato, sempre interpretato secondo il tuo sguardo, che valore ha l’oggetto nella tua vita e nella tua carriera artistica?
L’oggetto è legato al mondo della memoria. Mi fa da collegamento fra un mondo visibile e un mondo invisibile. Nei miei ricordi c’è sempre un racconto soggettivo che mi interessa e mi fa da collegamento fra il mondo reale e il mondo in cui le persone esistono attraverso un oggetto. Io conservo oggetti che appartenevano a mio nonno come se fossero sacre reliquie, cose che lo rispecchiavano di più ai miei occhi. L’oggetto è qualcosa che è nella tua quotidianità e che può aprire mondi invisibili. Lo stesso accadeva con gli oggetti abbandonati nei paesaggi urbani. Gli oggetti sono specchio della società, parlano molto di noi e di quello che lasceremo al mondo o che abbiamo già lasciato. Durante la residenza a Montelupo del 2019, ad esempio, ho dipinto direttamente sugli oggetti mondi che mi immaginavo appartenessero a quelli oggetti, storie mie e di tutti. Ho dipinto su un pallone, un lavandino, materassi ecc.
Le tue opere aprono mondi legati più al passato o a nuove narrazioni?
Le altre narrazioni vengono da se’, la mia intenzione non è mai uguale a quella di chi legge dall’altra parte. Posso parlare di cose legate alla mia memoria e crearne un’altra che appartiene più al mio futuro, ma di questo sono inconsapevole.
C‘è stato un momento in cui riprendendo qualcosa realizzato tanto tempo fa hai riconosciuto il lavoro di oggi?
Dipingo da sempre, da quando ero bambina e ciò che dipingo oggi penso di averlo già affrontato molto tempo fa, forse ancora prima degli studi scolastici. Ero molto affascinata dal ritratto, l’ho perso e ora l’ho ripreso. Faccio questi salti nella memoria. Ci sono sempre delle cose che ritornano.
Come ti immagini il futuro dal punto di vista artistico. Ci sono degli indizi nel tuo lavoro attuale?
Non lo so. Sto affrontando molte cose in questo momento. A volte ho bisogno di fare una pittura figurativa per la necessità di esprimere tutte le cose che vorrei dire. Poi c’è una grande parte di me che protende verso l’astrazione, e in questo rientra il mio amore per il sogno. Mi oriento molto spesso sull’astrazione e su un tipo di pittura espansa che si muove nello spazio, lavorando con strutture e cose che costruisco. Dove mi porterà? Gli eventi me lo diranno.
Pittura espansa, nello studio lavori su differenti supporti?
Mi capita di costruire e dipingere gli stessi oggetti che poi faranno parte delle nature morte che utilizzerò come soggetti da rappresentare nei quadri. In questo momento sto costruendo delle strutture con il fil di ferro su cui ci andrà la carta, due grandi carte che andranno sovrapposte nello spazio, superfici sospese, una sovrapposizione di diversi mondi e suggestioni. Sullo stesso genere ho già rappresentato il sogno di Adamo con Eva che esce da una sua costola e la morte di Oloferne come due estremi di due “sogni”, quello maschile e quello femminile.
Se dovessi portare un solo oggetto su un’isola deserta quale sceglieresti?
D’istinto mi porterei una cosa a cui sono legata ma che non mi servirà a niente: un vecchio barattolo di coccoina di mio nonno, ormai completamente secco, che porto sempre con me e mi fa stare bene. A pensarci in fondo è anche un oggetto che mi rappresenta molto.
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