In un saggio* pubblicato nel 1990, l’artista esponente dell’espressionismo astratto americano, Barnett Newman, scriveva che
“il pittore nuovo è simile all’artista primitivo che, trovandosi perennemente dinanzi al mistero della vita, aveva come principale preoccupazione quella di esprimere la sua meraviglia, il suo terrore di fronte a esso o alla grandiosità delle sue forze e ignorava le qualità plastiche della superficie, della trama ecc”.
Andrea Barzaghi, artista con base a Milano, non ignora la valenza plastica della pittura, ma, come Newman afferma, fonda la sua pratica sul potere contemplativo dell’arte. Nelle opere di Barzaghi, l’immagine plasmica acquista una dimensione scultorea che è figlia del primitivismo e dell’astrattismo. Considera la pittura un medium e in quanto tale la tela, superficie a due dimensioni, si fa a volte protagonista fisica dello spazio. I soggetti, figure simboliche senza manifestata identità, appaiono in ambienti naturali, parte di un unico ciclo vitale, dove errano alla ricerca del senso. In questo errare il pensiero soggettivo dell’artista si fa presente: pur ignorando la domanda, chi guarda è teso verso una risposta. Meticoloso, diligente, sacrale nell’ atto di creazione quotidiana, Andrea Barzaghi ci introduce attraverso questa intervista nell’ anelito di un esistenzialismo estetico, ragione della sua arte.
*B. Newman, The Plasmic Image fu presumibilmente scritto nel 1945 e pubblicato postumo nel 1990 in Selected Writings and Interviews, Alfred A. Knopf.
L’uomo, figura fluttuante, ombra errante, essenza dell’anima: il punto di partenza della tua pratica. Quanto è biografica la tua ricerca e quanto è fondamentale andare alla scoperta de “le vite degli altri”?
La mia ricerca è biografica in quanto – come ogni altra ricerca artistica – è una rielaborazione soggettiva di esperienze. Nonostante ciò, non mi interessa parlare della mia vita privata, parto però dalla sua soggettività per affrontare tematiche che credo presenti nel quotidiano di ognuno.
Domande come “Chi siamo?” “Da dove veniamo?” “Dove andiamo?” sono il bacino da cui si irradiano i molteplici campi di indagine del mio fare artistico. Sono domande con cui tutti, prima o poi, si confrontano. Trovo quindi doveroso, se non scontato, andare alla scoperta de “le vite degli altri”.
Il tuo lavoro comunica una forte tensione, sia nella forma – dalla stiratura dei campi geometrici dipinti all’estensione dei corpi delle figure che rappresenti- sia nella percezione concettuale: i soggetti sembrano tendere verso un fine, verso un qualcosa aldilà del confine stesso dell’opera. Un mondo che sembra che tu stesso abbia abitato. Quale dimensione costruisci attorno a te e dentro di te quando dipingi?
Per poter dipingere devo riuscire a creare una sorta di tensione, devo raggiungere un picco che possa scivolare nell’atto creativo. Questo picco coincide con la massima concentrazione: la mia mente deve diventare una superficie sgombra da qualsiasi elemento di disturbo.
Per ottenere questo devo innanzitutto creare ordine intorno a me. Mi occupo quindi per prima cosa delle faccende non inerenti al mio fare artistico, poi una volta fatto ciò, indosso i miei vestiti per dipingere – un piccolo rito di passaggio dall’essere persona all’essere artista – e solo allora posso iniziare.
Quando ho finito riordino tutto, quasi a cancellare quello che è successo in studio. È la conclusione di questo rito giornaliero.
Se il punto di partenza è l’uomo, quale ruolo ha invece il contesto naturale, a volte più definito, a volte più astratto, in cui sono immerse le figure?
L’uomo non è un’entità slegata dal mondo che lo circonda. Si muove in un ambiente, lo trasforma e viene influenzato da esso, c’è una continuità tra gli elementi.
Credo che sia errato vederci come ospiti – o padroni di casa – nell’ambiente che ci accoglie. Il paesaggio ha un ruolo di protagonista tanto quanto le figure che si muovono in esso.
A volte più naturalistico, a volte più astratto, la percezione di esso si modifica di volta in volta. Non è un monolite incorruttibile, indifferente all’influenza di fattori esterni. Lo stesso vale per noi – per fortuna!
Nel tuo lavoro i titoli sono molto chiari e diretti, indirizzano subito lo sguardo verso il tema o il soggetto principale, lasciando al tempo stesso presagire infinite possibilità narrative. In quale misura è importante l’interpretazione dell’osservatore per te, per il significato dell’opera e per la tua futura ricerca?
A volte capita che l’interpretazione dell’osservatore getti luce su un aspetto, un’idea che non avevo considerato e che potenzialmente potrebbe aprire nuovi sentieri nella mia ricerca. È per questo motivo che trovo molto importante che l’osservatore sia il più libero possibile quando si confronta con un mio lavoro. Questa libertà parte proprio dal titolo. Un titolo troppo esplicativo recinterebbe l’azione interpretativa di chi osserva.
Non credo di fare arte per dare risposte e non mi interessa trasmettere un messaggio univoco. Ogni nuovo significato che viene attribuito al lavoro lo arricchisce, ogni nuova sfaccettatura lo impreziosisce.
Il titolo deve suggerire una direzione, non un significato.
Hai dichiarato che “Ogni singolo lavoro è la cristallizzazione di una domanda, di un dubbio.”
Ti è mai capitato di ricevere anche la risposta?
No, non mi è mai successo, o meglio, ogni tanto capita di credere di ricevere una risposta. Magari in un determinato momento si può considerare anche veritiera; ma poi il tempo scorre, noi cambiamo con esso e con noi muta anche la nostra percezione delle cose. Non credo che ci siano risposte valide universalmente, altrimenti non continuerei a fare arte.
Andrea Barzaghi è uno degli artisti proposti da Artwort Gallery.