L’arte ufficiale è un caso particolare di un insieme più ampio che, in mancanza di definizioni migliori, chiamiamo arte senza nome o senza etichette1.
L’arte di Stefano Pane Monfeli non si esaurisce nelle definizioni tecnico-tradizionali dell’arte, è difficile inquadrarla in schemi prestabiliti, piuttosto si espande. Come un buco nero che apre le porte verso l’orizzonte degli eventi, non è dato sapere cosa riserverà domani l’arte di Pane, questo il suo tag. Con un passato immerso nel più profondo e suggestivo panorama della cultura pop romana, Pane è appassionato di illustrazioni e cartoon dedicandosi dal 1996 all’arte urbana e non solo. Dal graffiti writing alla fondazione del collettivo Why Style, Pane ha reso lo spazio urbano palcoscenico delle sue opere fino al 2004, anno in cui si trasferisce ad Amsterdam dove lavora ancora oggi come graphic designer e artista. Dallo spettacolo della città il pensiero di Pane, oggi più astratto, si modifica in una dimensione interiore che continua a conservare la follia della sperimentazione vivendo di spazi, superfici e tecniche senza confini di genere.
Stefano Pane Monfeli è uno degli artisti proposti da Artwort Gallery.
1 A. Dal Lago, S. Giordano, Fuori Cornice, 2008, Torino
Nel tuo libro “People think I’m cool” esordisci dichiarando che Stefano Monfeli è il tuo vero nome, Pane è il tuo tag. C’è un significato dietro questo tag?
Pane nasce al tempo in cui facevo graffiti e va inserito in quel contesto. Pane non ha un significato simbolico: darsi un nome nel mando dei graffiti, e probabilmente in generale, fa parte della creazione di una identità. C’è poi la questione della sonorità e della combinazione di lettere che nei graffiti è molto importante; questo nome in definitiva andava soprattutto disegnato. La parola Pane in questo mi soddisfava.
All’inizio della tua carriera hai iniziato a lavorare come cartonista. Cosa ti affascina dei cartoni animati e qual è il tuo preferito?
Ho realizzato dei fumetti per “il Massacratore” e “Katzivari”. Erano riviste ideate da Stefano Piccoli che al tempo, circa 1995, era mio compagno all’Accademia di belle arti di Roma. I fumetti mi avevano sempre affascinato e quando mi si è presentata questa opportunità sono stato felice di coglierla. Al tempo i ragazzi leggevano Dylan Dog in autobus e i fumetti erano molto popolari, per non pensare alla quantità di cartoni animati Giapponesi che venivano trasmessi in TV, UFO Robot Goldrake veniva trasmesso dalla RAI e lo vedevamo con tutta la famiglia.
Dire quali siano i miei preferiti è difficile ho letto e amato tante cose diverse dai fumetti giapponesi come Akira e Ghost In The Shell a quelli sulla rivista Frigidaire di Tamburini, Palombo e Pazienza. Mi piaceva anche la rivista Linus con Charlie Brown, BC e Wizard of Id. Leggevo l’Eternauta con tutta la roba science fiction e fantasy; Come non citare autori della grandezza di Crumb e Osamu Tezuka o Breccia e Crepax. Anche oggi quando vado in libreria cerco sempre tra i Fumetti, una delle mie ultime scoperte è Yuichi Yokoyama.
Nel 2000 hai fondato il collettivo Why Style enunciando lo statement: “Eravamo writer e alcune persone pensano che ogni ex-writer che fa arte sia uno street artist. Non è questo il caso”. Puoi spiegarci cosa intendi?
Intendevamo che non avremmo fatto cose “carine”, roba pop con i “characters” che riscuote tanto successo. Intendevamo che saremmo stati sporchi e non avremmo compiaciuto nessuno di quelli che intendono la street art in quel modo, le nostre installazioni erano fatte con immondizia, oggetti raccolti in discariche.
Dopo aver vissuto la scena romana del graffiti writing, nel 2004 ti sei trasferito ad Amsterdam. Cosa è rimasto della tua vita artistica di Roma e cosa è cambiato?
Tutti i legami con la città di Roma, che erano molto importanti sono venuti meno; ad Amsterdam non ho potuto replicarli perché il tessuto urbano è completamente diverso da quello di Roma. Il territorio a Roma è stratificato, le cose si accumulano, ognuno contribuisce aggiungendo; per me questo era fonte di idee, di cose che potevo fare con quel fenomeno. Amsterdam al contrario è organizzata e quello che facevo a Roma non ho potuto farlo qui. Quello che è rimasto sono ovviamente io con tutto il mio bagaglio di esperienze.
Dall’imitazione di illustrazioni vintage, la realizzazione di cartoon o di caricature, i tuoi ultimi soggetti sembrano parlare in forma più astratta una lingua mista a quella dei graffiti, come le opere della mostra “Tom & Jerry at the museum”. A cosa si ispirano?
Queste sono delle sperimentazioni, tentativi di lasciarmi trasportare piuttosto che guidare, l’astratto piuttosto che il figurativo mi sembra la via migliore per questo tipo di esplorazione, il punto è quello di essere sorpreso da quello che avviene quando per esempio traccio una linea, cosa cambia sulla superficie? Poi in Tom &Jerry at The Museum c’è il riferimento all’arte moderna in chiave umoristica, uno sguardo rivolto al linguaggio dell’arte, a quello che è stato rivoluzionario e che oggi è universalmente riconosciuto e quasi banale.
Il tuo lavoro spazia tra tantissimi supporti: dal foglio di carta ai cappelli o ai frigoriferi abbandonati nella periferia ai quali leghi anche diverse tecniche. Quali sono le tecniche che attualmente stai sperimentando?
La tecnica è spesso l’ostacolo tra l’idea e il risultato, almeno per me. Non ho mai adottato una tecnica specifica e cerco di usare la più efficace per ciò che voglio realizzare. Al momento sto usando semplicemente acrilici, un po di colori spray, cerco di mischiare cose diverse, gesso, carboncino e colore, faccio un pò di casino per vedere se mi porta in posti che io da solo non sarei stato in grado di raggiungere. Mi piace il supporto in legno per l’assenza di una texture evidente e per la sua fisicità, posso lavorarci in modo pesante, posso sagomarlo e quindi posizionarmi tra scultura e pittura, ma uso tutto, anche processi digitali, design di stickers o stampe grafiche.
Avvalendoti delle tue conoscenze in ambito editoriale, se dovessi pubblicare un libro autobiografico tra 10 anni, cosa racconteresti di te?
Probabilmente racconterei gli insuccessi perché sono le cose che mi interessano di più; in genere siamo portati a proiettare una immagine magnificata di noi stessi, miglioriamo e falsifichiamo la nostra immagine per provocare invidia e desiderio. Quando presentiamo noi stessi attraverso i social o altro replichiamo il linguaggio della pubblicità, un’immagine patinata. Anche per rigetto a tutto questo preferisco il contrario, il fallimento, lo sbaglio la sconfitta, è molto più umana e decisamente più comune di quanto si possa pensare.
E oggi di quale insuccesso parleresti?
Per affrontare la crisi che ha colpito la maggior parte di noi ultimamente ho perso delle importantissime commissioni. Dopo aver tentato strade migliori, mi sono ritrovato a dover scegliere come ultima risorsa tra il dover fare consegne e imballare cibo per cani, le ho scartate entrambe e ho provato a vendere i miei lavori su un sito di aste, inizialmente con discreti risultati. Questi però sono scesi fino al punto che mi sono ricomprato un mio lavoro perché valutato troppo poco. Ho iniziato quindi a lavorare con uno pseudonimo e a proporre cose che potessero attirare i favori del mercato, cose vergognose legate alla Street art. Il fatto eclatante ma forse solo per me, è che questi lavori sono risultati funzionare meglio dei miei. Per me questa storia ha dei risvolti tragicomici affascinanti.