Cogliere l’attimo in fotografia è un atto di maestria, tradurlo in pittura è un gesto di elegante sensibilità. La cifra dell’arte di Matete Martini, artista figurativa italiana, si racchiude nella pratica della restituzione pittorica di fotografie, immagini, movimenti che cattura con il suo sguardo nelle tele ad olio o ad acrilico. Innescando un rapporto di intima immersione nell’altro, Martini è entrata sin da subito in contatto con performer e ballerini che l’hanno guidata nell’indagine verso il movimento e le sue forme. Attratta dal corpo, da ciò che nasconde e dalle sue più belle imperfezioni, l’opera dell’artista friulana proclama un’ode alla femminilità senza genere, sinonimo di verità, bellezza, audacia e libertà. Come le parole che si evincono in questa intervista, che sembrano ricordare, al pari delle sue opere, un passo dell’autrice Marian Donner in Manuale di autodistruzione:
“Il corpo che balla si scrolla di dosso la vergogna, dimentica regole e doveri e si abbandona senza riserve. Il corpo che danza non si può inchiodare, non ha una forma stabile, né un nocciolo ma rimbalza sudato su e giù. Chi danza è libero.”
Matete Martini è una degli artisti proposti da Artwort Gallery.
Matete deriva da Ma tête, in francese “mia testa”. Questa scelta trasmette una certa volontà nel condividere il tuo pensiero, la tua visione del mondo. Inoltre, la partecipazione a mostre tutte al femminile e lo sguardo verso la comunità LGTBQI+ in alcuni dei tuoi lavori rivelano una spiccata sensibilità nella ricerca decisa del proprio essere. Quale pensi sia il ruolo della donna nel mondo dell’arte oggi e come pensi “la tua testa” possa contribuire?
Matete nasce da un’idea adolescenziale che doveva comprendere tutto il mio immaginario, foto di strada, momenti rubati al cinema. “Ma tètè” è la mia testa, nulla di più. Non ho mai avuto un insolente volontà esplicita di denuncia verso un tema in particolare, piuttosto un graduale crescendo di attrazione verso certe tipologie di bellezza, certi canoni estetici, certi personaggi, certi attraenti difetti. In poco tempo la mia attenzione si è subito concentrata su performer e affascinanti anime della notte. Il mio percorso è del tutto autodidatta per quanto riguarda il mondo dell’arte: io sono solo un’allieva di bottega, nessuno mi hai mai spiegato come fare l’artista, cos’è una curatela, come si fa un workshop. Questo mi ha avvicinato alle donne: sono cresciuta e cambiata grazie a loro, alla loro dolcezza, alla loro forza. Ho iniziato con le donne.
La connessione femminile in realtà esiste anche negli uomini o coloro che hanno un alto contenuto di femminilità. Io ne ho avuto bisogno e mi è stata dato. Questo “taste” di fare le cose al femminile mi ha dato la possibilità di sentirmi parte di un gruppo che mi ha ospitata e valorizzata. Le donne e gli spiriti femminili hanno un grande ruolo in una società dove nessuno sembra essere fondamentale e dove la missione è fare la differenza. C’è già tutto, è tutto davvero oberato per cui il lavoro di tutti diventa fare qualcosa di davvero significativo.
Vorrei non parlare di sesso femminile ma di femminilità, quella componente leggiadra, sensibile ed empatica che cambierà e ha già cambiato il mondo dell’arte da una freddo marchingegno blindato ad una comunità diversificata, libera, sensibile, aperta, accessibile e dialogante.
La femminilità di una mano che apre il dialogo, di uno sguardo di accettazione, di un gesto accogliente e comprensivo.
Il corpo umano, dal medium fotografico alla pittura, è il tema chiave del tuo lavoro. Qual è la relazione con il tuo corpo e quanto influisce nella tua ricerca?
Ho da poco appeso delle foto del mio corpo in casa. Trovo sia un marchingegno complesso il corpo, non per la sua composizione ma per il suo legame con il tempo, con la storia della persona che lo riflette e con il nostro carattere, il nostro modo di essere che lo modifica e lo porta a spasso, lo cambia e lo rappresenta. È uno specchio cosi affascinante! Alcune volte viene controllato magnificamente dall’esperienza di un ballerino, oppure lasciato andare come da una grande paura che libera i sensori.
Non cambierei mai il mio corpo, mi piace l’autenticità. Tutti abbiamo diverse fasi nella vita e ad oggi mi piace e vorrei ricordarmi così, come sono ora. Il corpo andrebbe immortalato spesso, almeno una volta l’anno; è la nostra storia e porta i segni di ciò che viviamo. I difetti ci rendono autentici. Le pieghe, le curve forti, i colori scuri o molto chiari, i difetti sono il mio amore per la bellezza. Lo so che non c’entra niente ma se dovessi finalmente adottare un cane, lo vorrei con un forte difetto visibile, irresistibile.
Le tue mostre sono frutto di collaborazioni, incontri e relazioni con artisti, performer, ballerini. Quanto è rilevante nella tua arte il rapporto con l’altro? E quanto la dimensione più individuale ed introspettiva?
Nella mia ricerca c’è un’ossessione per la forma e per la composizione di movimenti opposti e continui, frame di momenti di cambiamento. Scelgo i miei soggetti per gusto personale, cerco di conoscerli, studiarli e capire cosa c’è dietro a quel corpo. È sempre un dialogo, una conoscenza il più possibile profonda che molte volte sfocia in un’amicizia. Quello che faccio ha sempre bisogno dell’altro, delle sue parole, della sua storia e della sua immagine. La mia produzione è introspettiva nella personificazione di ciò che immagazzino ma nasce nell’altro.
In molte delle tue passate interviste hai raccontato il tuo primo approccio con l’arte a sette anni emulando i dipinti di Monet e Renoir. Ora che gli anni sono passati, hai affrontato diversi studi e sperimentato nuove tecniche, quali sono i tuoi modelli, le tue fonti di ispirazione?
Rimane un punto di riferimento il mio amore per Duchamp nel Nudo che scende le scale, nominato centinaia di volte. Sopra la piramide dell’arte moderna c’è per me la metafisica. La metafisica è la guida della modernità. Una parte del mio cuore va ai futuristi, tutti coloro che hanno partecipato a questo importante movimento italiano, mai abbastanza valorizzato. E poi a Roma scoprii Jean Arp che con quelle forme, la sintesi, i suoi arazzi ha cambiato molte cose.
Le tue opere hanno viaggiato tanto, fino ad arrivare a New York, così come te che hai vissuto a Venezia, Roma e Milano. Dove ti trovi oggi e dove vorresti che il tuo lavoro possa atterrare in futuro?
La mia casa studio è a Pordenone, la mia città natale. Sono rientrata poco prima che lo facessero tutti per il Covid. So di avere dei collezionisti in giro per il mondo che conservano le mie opere all’interno delle loro dimore. È cosi affasciante pensarlo. Ad aprile abbiamo inaugurato una mostra con una galleria di Londra, purtroppo online, presentando una performance. Lavorare nelle gallerie fuori dall’Italia è fortemente stimolante e mi auguro di andare sempre più lontano assieme a loro. Londra rimane un punto di riferimento con sottosaleprojects di Maria Valeria Biondo; mi piacerebbe consolidare New York e perché no, la Svezia, con Miranda Lundberg di worksbyfriends. Con loro abbiamo dovuto rinunciare ad un pop up pochi mesi fa per la situazione mondiale, ma noi non molliamo.