Surrealista simbolico pop. Suona come un famoso testo di Lucio Dalla la sfuggente intenzione di classificare l’opera di Valerio Sarnataro, alias Erk14, artista di Napoli, nato a Torino e cresciuto ad Ercolano. La sua arte, dichiaratamente sbocciata per caso, è l’atto terapeutico del suo errare nella quotidianità e nei più reconditi pensieri. Dalle opere imbevute di un magnetico gioco in bianco e nero, l’artista è passato all’uso di vivaci colori su nero conferendo ancora più significato ai suoi lavori dove protagonisti sono gli objects trouvé del quotidiano. Come in uno scavo archeologico, dove l’accurata e sapiente composizione di tutti gli elementi porta alla scoperta di impensabili narrazioni dell’uomo, le opere dell’artista innescano visioni dal gusto ironico e pungente a un passo dal sogno.
Per Artwort, Valerio ha giocato ad un’intervista aperta alla libera narrazione del suo io, per farci immergere ancor più nel suo immaginario dove ogni strada è sempre aperta all’interpretazione.
Erk14 è uno degli artisti proposti da Artwort Gallery.
Le tue composizioni creano cortocircuiti di significato che invitano a narrazioni istantanee con significati che possono rivelarsi anche molto personali. Rompiamo il ghiaccio entrando subito nella tua dimensione: descrivici i primi due oggetti che vedi davanti a te in questo momento.
Davanti a me in questo momento vedo un bicchiere IKEA mezzo pieno e uno specchio di quelli rotondi da tavolo.
Nelle tue opere alcuni elementi si ripetono spesso. Le rose ad esempio sono più volte protagoniste trasformandosi in amanti, pattern, o cibo pronto al consumo. Vorrei proporti un gioco: collegare a tre oggetti una narrazione quanto più spontanea, un flusso di pensieri, una visione onirica o una nuova opera a parole. Rosa, Luna, Fiamma.
Uno dei motivi per cui mi esprimo per immagini è perché con le parole non sono bravo, ma ci provo. Rosa tagliata, priva delle sue spine, messa in un vaso feticcio di un bisogno di bellezza, passione senza pericolo, tocco di novità e che non ha altro che la scelta di appassire. Dietro le finestre filtra la luna crescente. Luna pianeta satellite, abbastanza vicina per rifletterci la luce del sole e trasformarla. Così potente da alzare le maree, propizia e misteriosa. Luna a cui i poeti hanno rivolto le loro domande. La sua luce crea un’ombra che distorce e allunga la sagoma della rosa. Ombra che deve fare i conti con un’altra luce distratta dall’ammirare la luna. Quella di qualcosa che brucia nella stanza, una fiamma che sprigiona luce e calore, ma non brucia oltre che se stessa, non cresce ne diminuisce. Un fuoco statico, un inconscio che brucia e cerca di farsi spazio in un mondo dove si vive con “una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte”. Forse basterebbe vedere una rosa nel terreno: con le sue spine crea bellezza e timore; illuminata dalla luna che con le sue fasi scandisce il tempo, calma il bisogno di sapere chi siamo.
Le accumulazioni di oggetti quotidiani in alcune delle tue opere sembrano la rappresentazione visiva di un grande deposito della memoria. Quanto è casuale e quanto è meditata la scelta di questi elementi?
Non so perché nasca cosi il mio lavoro. Forse, essendo cresciuto vicino agli scavi archeologici di Ercolano, ho sempre trovato fantastico poter vedere la storia di un uomo attraverso gli oggetti lasciati. Senza dilungarmi sugli aspetti storici del design e quelli socio economici e capitalistici, oggi tramite gli oggetti si può capire l’emotività di un uomo piuttosto che la sua storia.
La parte più lunga del mio lavoro è proprio l’accumulo di oggetti: impiego settimane nelle progettazione di composizioni e nella ricerca di oggetti e un giorno per dipingerli. Ogni oggetto è un indizio che rappresenta un’azione, e ogni gruppo di oggetti formula una storia. Per motivi apotropaici e per associazioni mentali, chi osserva legge una storia diversa in base alla sua esperienza con l’oggetto rappresentato. Questa è la parte che più mi affascina del mio lavoro, un lavoro non di tipo emozionale, ma riflessivo. Senza saperlo, mentre cerchi di capire, stai raccontando te stesso.
Il tuo lavoro è immerso in un mondo in bianco e nero, che ci conduce in ambientazioni notturne, molto private, quasi oniriche. Da quando hai iniziato ad aggiungere il colore e perché?
Dovrei partire dal fatto che non sono artista per scelta ma mi è stato proposto! Motivo per cui spesso non mi definisco tale, i veri artisti di solito sono egocentrici nell’esserlo, io timido nel dirlo. La verità è che avevo bisogno di un’analista. Il mio lavoro nasce dalla necessità di togliermi pesi che poi si sono trasformati in ricerche, ragionamenti su me stesso e quello che mi circondava; un processo che non poteva essere a colori. Un lavoro per l’appunto privato, chiuso nelle mie stanze, di notte. Aveva bisogno di estremi, un bianco e nero necessario per comprendere e distinguere. La terapia dopo 5 anni mi ha reso chi sono oggi e oggi mi permette di apprezzare i colori che inconsciamente si sono fatti vividi nei miei lavori all’improvviso forse per esigenza, in un nero che li rende ancora più forti e vibranti.
L’opera che parla di più del tuo passato e l’opera che parla di più del tuo futuro.
Quando rivedo i miei vecchi lavori quasi non mi riconosco, ma per fortuna sono uno di quelli che senza farlo apposta è andato per periodi: nero su bianco, bianco su nero, e adesso colori su nero, quindi te ne propongo uno per ogni periodo.
Il primo periodo è un lavoro nero su bianco 100×70 su carta: rappresenta un elefante che porta sulla schiena una forchetta con sopra un airone.
Il periodo bianco su nero invece è una lavoro su carta di 250 x 150 cm: rappresenta un intero deposito di oggetti. Quanti mesi per realizzarlo e a quante domande ha risposto.
L’ultimo periodo invece è un lavoro su tela, colore su nero 150 x 200, e rappresenta una piramide di oggetti in una stanza buia e senza finestre, pieno di nuove consapevolezze da ridiscutere.