Il mondo di Marco Antelmi (1993), artista e curatore nato a Bari e attivo a Milano, è un singolare connubio tra la scienza e l’astratto. Inizia i suoi studi in ingegneria civile per poi mescolare le conoscenze scientifiche agli interessi verso l’illustrazione prima, l’arte e la curatela poi. Ingegnere teorico per sua definizione, Antelmi è un’artista emergente nel panorama italiano dell’arte contemporanea che veste la sua arte di rimandi primitivi all’esoterismo imprimendo un deciso stampo “hi-tech” nella scelta di temi e concetti alla base della sua ricerca. Arte, tecnologia e politica: con una critica osservazione del reale i campi di indagine dell’artista si trasferiscono in media e supporti che spaziano dal video alla fotografia, dalla scultura all’immagine glitch. La sua opera è artefatto della mente umana e degli strumenti tecnologici visti quale mezzo di espressione da analizzare e sviscerare. Navigando nei cunicoli più reconditi dei meccanismi della nostra società con la visione di Marco Antelmi si sprofonda in una dimensione ancestrale che sobbolle di futura misticità.
In questa intervista a ritmo alterno abbiamo interrogato l’artista su questioni più profonde per dipanare il suo pensiero intervallate da curiosità su riferimenti ed interessi personali.
Marco Antelmi. Ti definisci ingegnere teorico. Come si sviluppa il tuo background accademico ed artistico e come le due componenti si sono fuse nella tua ricerca?
Quelli che nella mia vita possono sembrare dei bruschi cambi di percorso, sono in realtà dei processi che si sono evoluti nel tempo in maniera molto graduale. Gli studi scientifici applicato mi hanno sempre appassionato, così quando mi sono trasferito a Milano, circa nove anni fa, ho intrapreso il percorso dell’ingegneria civile. Ma nello stesso periodo una mia altra passione, quella per l’illustrazione si è evoluta proprio grazie all’influenza dei mille stimoli della metropoli lombarda. Ho sempre frequentato le mostre di arte contemporanea ma viverle nella città dove mi sono stabilito mi ha fatto capire che potevo dire la mia su questioni che sento urgenti, fornire un punto di vista laterale, tecnico-poetico. Così ho deciso di specializzarmi in Naba in arti visive e studi curatoriali. Ho capito praticamente subito che il disegno anatomico dei fumetti di supereroi ormai mi stava stretto, e così ho iniziato a sperimentare con il bagaglio di conoscenze che mi portavo dietro da ingegneria, ma in ambito artistico. Da un po’ di tempo ho iniziato a inserire nella mia pratica anche l’approccio della user experience.
La tua passione più grande.
Mi definisco ingegnere teorico perché mi piace analizzare, disassemblare e riassemblare le infrastrutture tecnologiche e ideologiche nelle quali viviamo. Infatti molte delle mie opere sono costruite su più livelli proprio per questo motivo. L’aspetto strategico è fondamentale nella mia ricerca.
Il rapporto tra Arte e tecnica è un legame indissolubile e profondo che in greco antico vedeva la tékhne come sinonimo di arte nel senso del saper fare, perizia manuale e spirituale. Quale legame si instaura nella tua ricerca artistica tra arte e tecnica?
Ho sempre apprezzato moltissimo l’etimologia di tecnica, ed è sempre per lo stesso motivo che cerco sempre di tenere ben presente la differenza con la tecnologia. Quindi ti direi che nella mia pratica sono tre componenti ad essere indissolubili: arte, tecnica e tecnologia. Questo terzo campo mi permette di applicare in maniera più ragionata le conoscenze tecniche che possiedo. Mi piace andare molto in profondità nei medium che utilizzo, e in quasi tutti i progetti che realizzo mi occupo personalmente degli aspetti tecnici. Ad esempio in Black Cloud Council ho utilizzato l’intelligenza artificiale per proseguire il video dell’incendio del data center OVH a Strasburgo, generando un discorso che si potrebbe definire autopoietico.
Il tuo attuale interesse più grande.
Il mio interesse più grande è quello di spiegare le connessioni tra fenomeni – sociali, tecnologici e di interazione – apparentemente scollegati e nello stesso momento aprire discorsi sulle strutture opache alle quale affidiamo, in maniera più o meno cosciente, un ampio spettro degli aspetti delle nostre vite. Il nudging, la necropolitica, l’ideologia del cloud sono tutti fattori coinvolti in questo processo di pensiero critico e speculativo.
All’arte e alla tecnologia, tra i principali campi di indagine si aggiunge la politica. Quali sono gli esiti formali di questi tre indirizzi?
L’attivismo è un fattore importante della mia pratica, che non viene da una scelta ragionata ma rappresenta forse l’aspetto più urgente e incontrollabile di ciò che faccio. Quest’urgenza si è tradotta negli anni nella realizzazione di progetti partecipativi su temi come le proteste contro i Centri di Permanenza per il Rimpatrio, una piaga ancora viva in Italia, dove gli immigrati vengono privati della loro umanità, nel video Demigrare; oppure sul tema dell’etica del lavoro e della formazione di comunità nell’ambito dei rider del food delivery, nel progetto in corso P2D; o, ancora, sulla memoria popolare – e fieramente anti-istituzionale – della Tramvia del Chianti, una infrastruttura fiorentina scomparsa di cui si sa molto poco, nella piattaforma SVAT che ho appena ultimato grazie alla residenza Convisione di Villa Romana.
La lettura che consiglieresti.
La collaborazione, un volume di poesie di Fabrizio Bajec.
Artista e curatore. Nel processo creativo come si dispiegano questi due altri aspetti della stessa professionalità? Come convivono nel quotidiano?
Preferisco non definire in maniera troppo netta dove finisce l’artista e dove inizia il curatore. Li considero come due tool più che come due figure. Prendo ciò che mi serve dalle libertà del fare artistico e ciò che mi serve dalla capacità organizzativa del curatore, specialmente nei progetti più partecipativi. Di sicuro l’aspetto della scrittura e del documentario fanno da padrona nella gestazione dei miei progetti: l’intervista, sia a livello scritto che di immagine in movimento – come per esempio in Teorie di Topi – è uno dei miei mezzi preferiti proprio perché mi pone allo stesso livello del mio interlocutore e mi permette di scavare a fondo stabilendo al contempo relazioni empatiche.
L’artista che consiglieresti.
American Artist. Oggi c’è bisogno del suo approccio tecnologico al tema della blackness. L’ho scoperto per caso e sono stato molto contento di notare i punti in comune, mi sono rivisto nel suo approccio al cloud ma lui non è soltanto questo, è uno sguardo lucido sulle relazioni tra tecnologia e violenza, tra bias e persecuzione.
Il curatore che consiglieresti.
Il curatore PhD Vincenzo Estremo. Premetto che si tratta di un consiglio in larga parte biografico, in quanto Estremo è stato il relatore della mia tesi magistrale in teoria e metodo dei mass media in Naba. Ma oltre che un validissimo docente, lo considero un amico. Estremo è esperto di immagini in movimento, con lui ragiono molto sul futuro delle immagini. Il suo ultimo libro, Teoria del lavoro reputazionale, credo sia un must non solo per gli addetti al settore artistico ma anche per chi lavora in altri settori. L’apporto che fornisce alla questione dell’economia della reputazione tiene ben presente di come spesso i sistemi di sfruttamento peggiori nascano proprio in ambito artistico e vengano poi ripresi e perfezionati in ambito corporate.
Nel tuo ultimo progetto Black Cloud Council sviluppi l’istituzione di un “tecno-culto” rimandando ad una dimensione virtuale e al contempo profondamento radicata ai culti ctoni legati alla terra. Puoi spiegare il pensiero che sottende questo progetto?
Considero Black Cloud Council il mio progetto recente più importante, parte di Ciò che resta del fuoco, mia mostra personale curata dal collettivo Voga presso il loro nuovo spazio a Bari. Ho definito il progetto come un tecnoculto in primo luogo perché volevo distaccarmi dalle definizioni usuali di opera d’arte, dato che l’ho inteso fin da subito come un rituale privato. Da quest’ultimo emerge una nuova narrazione data dall’unificazione delle conoscenze tecniche in ambito cloud computing e dalle prospettive storiche della filosofa Silvia Federici, secondo la quale la transizione al capitalismo avvenuta nel Medioevo è strettamente legata alla persecuzione delle streghe. In sostanza, i vari elementi che costituiscono l’ambiente immersivo di Black Cloud Council, dallo striscione in pvc alle piante magiche alle sculture in poliuretano, promuovo su vari livelli la sovversione dell’ideologia del cloud, secondo la quale ogni esperienza che viviamo – non solo nel digitale ma anche nel reale – va individualizzata, e secondo cui l’utente viene impossibilitato all’aggregazione spontanea, libera e incontrollata.
L’opera personale o altrui che più ti rappresenta
Il film Kynodontas di Yorgos Lanthimos.
L’opera/elemento/video/storia che pensi possa rappresentarti di più nel futuro
La nascita di Siri.
Prossima ambizione.
Lavorare sul rapporto tra tecnologia e militarizzazione della polizia.