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Andrea Mangione è un giovane artista italiano che non ama definirsi attraverso una tecnica, piuttosto preferisce abbracciarne tante. Il suo sguardo privato e silenzioso è ciò che a prima vista stupisce. Dalla sua fascinazione verso contesti domestici e urbani, il soggetto di Mangione è il “non soggetto”. La rappresentazione intima di un’osservazione meditata è capace di catturare l’indefinito dando luce a ciò che è marginalmente nascosto. In ogni sua produzione si dedica ad una rappresentazione morbida, malleabile e sinuosamente precisa. Attratto dalla sfumatura che i materiali come la pittura ad olio possono generare, realizza opere che raccontano un viaggio personale in un tempo e in uno spazio non dichiarabili e che lasciano la libertà di una sottile e calma interpretazione. Ricordando le parole di Jack Kerouac, in “On the Road”, il lavoro di Andrea Mangione diventa un viaggio ovattato dove lo sguardo passa verso la realtà che sfugge e velocemente si allontana: hai solo il tempo di catturare attimi sciolti la cui storia è interamente da immaginare costruendo un bagaglio in cui reale e immaginario fanno parte di uno stesso percorso.
“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo.”
Jack Kerouac
Andrea Mangione è tra gli artisti proposti da Artwort Gallery.
Qual è stato il tuo primo approccio con l’arte e quali i tuoi primi esperimenti?
Sono cresciuto in un ambiente familiare vicino all’arte e alla cultura, che ha sempre agevolato i miei interessi e le mie curiosità. Verso il 2005 ho incominciato a riprodurre a pastello frammenti di immagini. Erano inquadrature di città, automobili, qualche interno, dei dettagli marginali spesso sfocati che trovavo tra le riviste e i giornali di casa. La scelta dipendeva dalle suggestioni che certi ritagli mi trasmettevano, attraendomi fino al desiderio di riprodurli. Era un modo di poter abitare quelle immagini durante tutto il tempo dell’esecuzione. Questa modalità intuitiva, basata sulla percezione di uno stupore, rimane al centro di un procedere che si è strada facendo elaborato in continue variazioni.
Come è cambiato il tuo sguardo oggi?
Per certi aspetti è rimasto lo stesso. Penso che lo sguardo sia come il carattere, si definisce nel tempo, ma ci sono delle componenti innate che ti fanno fare delle scelte piuttosto che altre. Si aggiungono in seguito le esperienze culturali, che nel tempo amplificano e raffinano le possibilità cognitive. Cerco di continuo nuove soluzioni per far sentire il mio sguardo sulle cose.
Nei tuoi lavori si percepisce uno sguardo intimo, privato. Quali soggetti ti affascinano e quale ti ha maggiormente emozionato?
Sono affascinato dagli spazi del contesto urbano e dalle immagini che esso produce. Credo che il soggetto non sia importante di per sé, ciò che conta è la conduzione con cui svolgi il lavoro, che risulta interessante quando si riesce ad equilibrare calma e stupore.
Quanto della tua ricerca deriva dall’immaginazione e quanto dalla percezione del reale?
L’aderenza al reale oggettivo può essere poco interessante, mentre è quello che succede tra te e la visione ad entrare in gioco e a creare nuovi significati. Anche se per me la realtà rimane inviolabile nelle sue forme: un albero è un albero, la strada è una strada, mi interessa il suo sottosuolo emotivo, quello che può stabilire un dialogo con il mio immaginario e con i miei stati d’animo.
Gli scenari ritratti si inseriscono in un mondo “fuori campo” attraversato da uno sguardo furtivo in viaggio. Quanto è vera questa interpretazione e quali sono i viaggi che hanno segnato la tua ricerca?
Considero l’allusione al fuori campo una qualità dell’inquadratura, ovvero quella capacità di evocare qualcosa di materialmente assente. In quel rapporto privato che ho mantenuto con la realtà oggettiva, si è sempre avvertita l’esigenza di un allineamento su un asse visivo capace di mettere in relazione l’apparenza e la sua interpretazione.
Non ci sono viaggi in particolare che mi hanno segnato, il viaggio è di per sé metafora di ricerca. Si viaggia nella diversità degli scambi culturali, nelle aperture di nuovi spazi, nelle incognite che ne possono derivare. Piuttosto che una raccolta di souvenir intesa come trofeo dei luoghi visitati, vi è sempre la propria centralità da riscoprire nei confronti del mondo. Soltanto in questa relazione con se stessi è possibile trasformare i luoghi attraversati in esperienza.
In un tuo testo hai scritto “Prediligere una tecnica potrebbe significare sminuire le possibilità espressive di altre; per tutte quelle che uso sento un’attrazione, una curiosità, un desiderio di approfondimento”. Indica un elenco ragionato delle tecniche che usi e quale attrazione provi per ognuna di queste.
Mi piacciono la trama pulviscolare del disegno a matita, l’opaca densità materica della pittura ad olio, la duttilità e la morbidezza del pastello, le accelerazioni intuitive che offre il digitale, il fluire dell’immagine animata.
La cifra dei tuoi lavori è segnata dalla morbidezza delle linee che lascia un senso di indefinitezza a chi guarda, una nebbia che offusca la vista e permette l’immaginazione. Cos’è per te l’indefinito?
Qualcosa che si offusca per dare più risalto alla sensazione, alle verità intuitive che potrebbero perdersi di vista in una più concreta definizione delle cose.
L’indefinito può essere anche il mettere in evidenza qualcosa che in apparenza è marginale e secondario.
Quali progetti segui oltre alla personale ricerca artistica?
Partecipo attivamente alla realizzazione di opere che interagiscono con l’ambiente, sia in spazi pubblici che in contesti privati, firmati da mio fratello con lo pseudonimo Gummy Gue. Nel 2013 ho avviato insieme ad alcuni amici il progetto Ritmo, presentando il lavoro di artisti che operano in diversi ambiti delle arti visive. Studio anche per diventare un insegnante.
Su cosa stai lavorando e quale sarà la prossima tecnica che adotterai?
Attualmente sto lavorando a delle figure che camminano per strada, sono sconosciuti abitanti di alcune città. I soggetti vengono individuati durante perlustrazioni su google street view e dipinti ad olio su fogli bianchi. Mi sembra che questa sottrazione del contesto, associato alla collocazione delle figure sulla parte bassa del foglio, crei l’effetto di un’ideale piano di appoggio. Inoltre, le figure esprimono il carattere delle città in cui vivono, al momento Tokyo, New York, Londra e ne emanano le identità. Un’altro degli aspetti che mi sollecita è la possibilità di applicare un tipo di pittura che nel mio lavoro non era presente, un’aderenza al vero prima non sperimentata.