São Paulo è un’infinita giungla di cemento: un potpourri di voci, rumori, musiche e colori. Un anarchico brusio multietnico, multiculturale e multicentrico da cui Bruna Canepa attinge quotidianamente per i suoi disegni. La formazione architettonica di Bruna le ha permesso di avvicinarsi e di fare sue le tecniche, gli strumenti e i linguaggi del disegno d’architettura. Con il tempo, a tutto questo, ha affiancato una personalissima e continua ricerca cromatica e di dettagli raffinati con cui esprimere a pieno sé stessa e la sua arte.
Ho avuto la fortuna di incontrare Bruna Canepa a São Paulo nei giorni della mostra Deserto Americano a cura di Sol Camacho e ne ho approfittato per farle qualche domanda.
São Paulo, soprattutto per noi che veniamo dal Vecchio Continente, è un luogo non facilmente assimilabile nei nostri parametri. Quanto è importante per te vivere qui? Che significato ha questa città?
Penso che sia possibile assimilare São Paulo solo per parti, in maniera frammentata, ma, probabilmente, è così anche per qualsiasi altra città.
São Paulo funziona come una regola, una misura: è il mio riferimento per leggere e comprendere gli altri luoghi del mondo. Le idiosincrasie di essere paulistana e/o sudamericana sono esecrate e percepibili proprio quando non sono qui.
Sempre parlando della tua città, cosa ne pensi della scena artistica? C’è un grande fermento? C’è cooperazione e dialogo tra gli artisti nonostante le distanze e le dimensioni?
Funziona più come una serie di nuclei e scene differenti che come una grande e unica scena artistica. São Paulo è gigante e certamente anche la sua offerta di attività lo è. Ci sono le programmazioni ufficiali dei musei cittadini e allo stesso tempo ci sono le più disparate esposizioni indipendenti. Artisti e cose da vedere non mancano: quello che manca è un incentivo alla cultura.
Davanti al caos di questa megalopoli ti sei avvicinata ad un mezzo di produzione artistica che ha bisogno di spazio e tempo per la pratica dei suoi rituali. Come mai lo hai scelto e com’è nata questa tua fascinazione?
Disegnare può essere una risposta immediata al caos della megalopoli. Certamente è un’attività meditativa e introspettiva che mi calma ed è molto piacevole. Ho cominciato a disegnare con maggiore consistenza su incentivo di mio papà, che è un artista, quando avevo sedici anni. Così ho iniziato a lavorare come artista grafica e a ventun anni mi sono iscritta alla facoltà di architettura. In questo modo ho avuto accesso al linguaggio dei disegni tecnici e sono rimasta incantata da strumenti e materiali specifici. Me ne sono appropriata per il mio lavoro personale e per il mio lavoro come architetto.
Guardando i tuoi disegni si coglie che nulla è lasciato al caso e che c’è un progetto dietro ad ogni immagine. Come nasce un tuo disegno? Immagino che la scelta del mezzo d’espressione implichi anche un certo studio prima di iniziare a disegnare, credo non ci siano ctrl+z o copy e past che tengano…
Ho un taccuino su cui disegno le idee e dove descrivo in maniera estesa alcuni dei disegni o progetti che voglio produrre. Dopo, solitamente, faccio una prima versione su carta velina, a matita, e di seguito un primo test con i colori, in un foglio più spesso. È quasi improbabile che questa versione colorata sia quella finale. Normalmente sono diverse le versioni prima di arrivare a un buon risultato e questa è una parte essenziale del processo: è in questo momento che, solitamente, scopro cose favolose che mai avrei programmato. Gli errori fanno parte del processo e sono ben accetti: spesso sono loro a mostrarmi nuove prospettive.
E tutti gli elementi che corredano i tuoi disegni: lettere di vari caratteri, pattern, persone, macchine… come te li procuri?
Quando arrivo in una qualsiasi nuova città, una delle primissime cose che cerco è una cartoleria. Può essere una città più o meno grande, ma trovo sempre piccole cose interessanti e diverse da quelle che trovo a São Paulo. Colleziono tutti questi articoli (letraset, timbri, adesivi, strumenti per le penne tecniche, ecc…): è una vera ossessione. La considero una parte essenziale della mia ricerca.
Che significato ha per te il disegno d’architettura? Soprattutto perché disegnare architetture? Immagino che anche la tua formazione sicuramente abbia giocato un ruolo importante…
Il disegno architettonico è un linguaggio. Un linguaggio con cui mi sento a mio agio per tradurre idee e per pensare e disegnare le cose del mondo.
Nei tuoi disegni, tempo e spazio perdono ogni significato: scale, proporzioni, stili e realtà differenti si mescolano con un gusto un po’ rétro. Sono giochi un po’ postmoderni con nonsense che sicuramente incuriosiscono chi osserva. Una relatività che ci dice che non esiste un unico modo di guardare e interpretare? Ogni mondo contiene infiniti mondi in noi che osserviamo?
Possiamo considerare il disegno come uno strumento per mostrarci solo gli strati che vogliamo mostrare, sotto qualsiasi punto di vista. Non necessariamente mi sto inventando qualcosa nei disegni, sto semplicemente dando enfasi a cose che già esistono nel mondo, con la differenza che sono spostate dal loro contesto o giustapposte e arrangiate in maniera differente, con scale distorte, ecc… L’universo di possibilità che ha il disegno è praticamente infinito.
Uno dei tuoi lavori più celebri è 5 houses, la tua tesi di laurea alla Escola da Cidade. Quando ho guardato qualche immagine trovata in rete, sarà per il nome o per i disegni in assonometria puliti e diagrammatici, ho subito pensato a Eisenman con le sue operazioni sulle architetture. Ma prima di ogni mia speculazione spiegami meglio questo tuo lavoro: la casa è molto più che un luogo dove trascorrere le nostre esistenze?
Questa ricerca di tesi è stata un’opportunità per ragionare ed esplorare le possibilità di pensare l’architettura attraverso il disegno e la scrittura in una maniera che poi utilizzo anche oggi.
Nello specifico, 5 houses aveva come obbiettivo quello di esplorare l’archetipo di “casa”.
In questo lavoro non sento di aver trovato verità assolute o conclusioni precise (né su quello che è una casa, né una visione finale su quello che è il processo) e non era nemmeno questo l’obiettivo. Quello che ho imparato facendo questa ricerca è che esiste letteralmente un universo di possibilità (questo è persino il titolo dell’ultimo disegno del libro) e che allo stesso tempo esiste un universo di risultati.
Il libro è un’esposizione di quello che è stato prodotto, pensato e discusso nell’anno della laurea e un ricordo simpatico di questo periodo che custodisco come un tesoro.