Le interviste immaginarie sono un viaggio intrigante che ci porta ad incontrare, ogni volta, un grande del passato. Cinque domande rivolte con leggerezza per scoprire vita, passioni, progetti, segreti e umanità di questi personaggi, ricostruiti sulle basi del nostro sogno e sulla realtà della storia. Personaggi che si presentano vivi e attuali, ma in tutto rispondenti al loro tempo e alla loro personalità. Per capire veramente come e perché siano così importanti per la nostra cultura.
New York in questa mattinata di sole primaverile è elettrizzante, una giornata ideale per intervistare Margaret Bourke-White prima che si volatilizzi in un altro dei suoi viaggi mirabolanti per documentare quel che succede nel mondo.
Margaret lei è veramente una pioniera, antesignana in fotografia e nelle scelte di vita. Prima fotografa che ha reso artistica la fotografia industriale e ricordo le sue parole “…ponti, navi e officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento”, la sua foto dell’imponente diga di Fort Peck nel Montana sul primo numero di Life, prima donna fotoreporter di guerra e unica donna tra soldati ed aviatori, primo fotografo occidentale a scattare foto in URSS. E potrei continuare citando il primo ritratto non ufficiale di Stalin, il ritratto di Gandhi nella sua stanza vicino all’arcolaio poche ore prima di essere ucciso, i deportati di Buchenwald. Immagini che sono già entrate a pieno titolo nella storia della fotografia come significativi documenti del nostro tempo. Gran merito perché si è sempre fatta strada in un mondo di uomini e meglio di un uomo. Come è iniziata questa sua avventura?
Alla Columbia University, dove ero iscritta a biologia, ho frequentato un corso tenuto da Clarence White, forse la figura più importante del fotosecessionismo, ed è scattata la molla che mi ha portato sino a qui! La passione per la fotografia delle grandi industrie in espansione, dei cantieri navali, delle macchine e del mondo del lavoro l’ho ereditata senz’altro da mio padre Joseph, un ingegnere “inventore” che progettava macchine per la stampa, ricordo che mi portava con lui nelle acciaierie, realtà per me nuove ed affascinanti. Poi sono stata travolta dalla vita – tra l’altro il mio primo matrimonio lampo nel ’25 con Everett Chapman e il divorzio due anni dopo – e dal turbinio degli eventi di questi nostri tempi e non mi sono più fermata. Nel 1928 ho aperto il mio primo studio a Cleveland specializzandomi nella fotografia d’architettura, di design e industriale e proprio le immagini per le acciaierie Otis hanno iniziato a darmi notorietà, così fioccarono offerte da altre industrie come la General Motors. Nel ’29 mi sono trasferita a New York chiamata dal caporedattore di Time Henry Luce per collaborare alla nuova rivista illustrata Fortune e il primo numero uscì nel febbraio del ‘30. Erano gli anni della Grande Depressione ed iniziai un lungo viaggio al sud – a quei tempi la mia macchina era una Corona View 5×7 – per documentare la vita difficile, spesso tragica, del popolo americano.
Un’esperienza che mi ha segnato profondamente e che ha modificato anche il mio modo di fotografare e di guardare il mondo avvicinandomi alle persone con occhi più attenti. Un pellegrinaggio nelle campagne americane devastate da siccità e miseria, settantacinque fotografie sono state pubblicate nel libro You Have Seen Their Faces firmato con lo scrittore Erskin Caldwell che viaggiò con me e poi è diventato il mio secondo marito, anche lui per poco… In quegli anni ero giovane e piena di entusiasmo e stavo cercando di realizzare il mio desiderio più grande, diventare la migliore tra le fotogiornaliste.

L’immagine delle persone in fila davanti ad una mensa popolare a Louisville, in Kentucky, che ha fatto il giro del mondo come tante altre sue fotografie, l’ha di fatto catapultata nell’olimpo del fotogiornalismo mondiale. Il contrasto tra quegli uomini e donne dai visi contratti in una dignitosa sofferenza si contrappone, in maniera stridente e devastante, ai volti sorridenti della famiglia americana della middle class, testimoni stereotipati del sogno americano sottolineato dalla scritta “World’s highest standard of living, there’s no way like the American Way”. Poi la grande avventura iniziata con la pubblicazione della sua foto della diga di Fort Peck sulla copertina del primo numero di Life, il 23 novembre 1936, una data storica per lei che aveva ripreso in tutta la sua grandiosa monumentalità un simbolo del New Deal roosveltiano. Ma prima di parlarmi degli anni in cui collaborò con Life, di cui era anche socia fondatrice, io vorrei tornare a quella leggendaria immagine mozzafiato dove è lei ad essere ritratta dal suo assistente Oscar Graubner nel 1934 su di un gargoyle d’acciaio con le sembianze di un’aquila, sporgente al 61° piano del Chrysler Building… ecco, io vorrei chiederle di quei moment lassù.
La magnificenza di una New York vista dall’alto avvolta da quella uggiosa aria newyorkese, quegli uomini lillipuziani laggiù, quelle macchine frenetiche, quel rombo di motori e voci infinitamente lontani ma limitatamente vicini e la sensazione di stare sempre per spiccare il volo su quell’aquila che finalmente si sarebbe liberata. Indimenticabile avventura, ne abbiamo parlato spesso con Oscar che è stato professionalmente impeccabile e molto coraggioso! Ho avuto il mio studio all’ultimo piano del Chrysler Building, con una coppia di alligatori in libertà.

Nonostante i molti viaggi e i reportage per Fortune, ho alternato fotografie pubblicitarie alla fotografia industriale, varie mostre, libri, e poi sono iniziate le peripezie rocambolesche con Life. Inviata in Europa documentai l’avanzata del nazismo che preludeva all’inizio di quella terribile guerra, nel ’38 l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei tedeschi e nel ’41 quella della Russia. Fotografai il bombardamento aereo dei tedeschi su Mosca dal tetto dell’ambasciata americana, unica fotografa straniera testimone dell’evento sentivo su di me tutto il peso e la grande responsabilità che mi era stata affidata. Poco tempo prima ero riuscita ad inviare uno scoop a Life, anche se a Mosca ero strettamente sorvegliata dai servizi segreti, immagini che mostravano una città diversa e non chiusa in un ateismo totalizzante: chiese ortodosse e protestanti convivevano vicine le une alle altre. Grazie poi all’intervento di Roosevelt riuscii ad incontrare Stalin e realizzai il suo primo ritratto non ufficiale che rimase un unicum per molti anni, un’immagine autorizzata anche al di fuori dell’URSS. E poi l’atrocità delle immagini quando entrai con le truppe americane guidate dal generale Patton nell’immenso campo di concentramento di Buchenwald…

Margaret le propongo una pausa, una frivolezza per farla sorridere. Lei saprà certamente che è considerata una delle donne più eleganti e sono divenute famose certe sue mises dove appare sempre unica e innovativa con quel tocco di glamour in più – i teli che coprono la macchina fotografica a volte in pendant con i suoi abiti – che la fa ammirare da tutti e copiare dalle donne, non solo americane. L’abbigliamento come un modo di comunicare, un linguaggio senza parole ma ricco di messaggi. Osservando le sue immagini – lei con il giubbotto in pelle simbolo degli aviatori americani il giorno in cui ha fotografato l’attacco aereo statunitense a Tunisi o con i biondi capelli al vento e la macchina fotografica tra le mani – invia messaggi di libertà e forza, coraggio e determinazione, avventura e caparbietà ma anche di femminilità e bellezza solare, di una positività sorridente che sempre l’ha aiutata anche in situazioni drammatiche.
Ho sempre cercato di trasmettere l’entusiasmo per quello che faccio, certamente mi sento una donna fortunata perché continuo a rincorrere e a realizzarmi in quello che ho sempre sognato, anche se molte volte ho provato il desiderio di scappare da certe situazioni sconvolgenti, chiudere gli occhi e non vedere. Ma non sono mai fuggita, ho fatto mia la filosofia di Life “Vedere la vita, vedere il mondo”. Diventai War Correspondent e andai in prima linea sui vari fronti con indosso l’uniforme disegnata appositamente per me. Penso ai raid aerei in Africa, agli assedi alla Linea Gotica in Italia a seguito dell’esercito americano. Ho fotografato, fotografato sempre e tanto. I ricordi di quel conflitto si intrecciano agli avvenimenti dell’America e alla mia storia di fotoreporter continuamente in giro per il mondo. Sono nati così i libri con le mie fotografie They called it Purple heart Valley, sulla campagna d’Italia e Dear Fatherland, Rest Quietly, un titolo che ricorda le parole dell’inno Die Wacht am Rhein cantato dai soldati tedeschi. Finita la guerra sono andata in India per documentare la divisione con il Pakistan. Ho fatto quel famoso ritratto a Gandhi, rimasi sconvolta dalla sua morte poco dopo. Solo due fotografi furono ammessi al suo funerale, Henry Cartier-Bresson ed io. Nel 1950 – solo due anni fa e mi pare sia passato un secolo – in Sud Africa ho visto e fotografato le condizioni disumane dei minatori di Johannesburg, sono scesa sottoterra con loro, non ci sono parole, parlano le immagini. Nel ’48 era stato istituito dal governo dei “bianchi” l’apartheid, una crudele politica di segregazione razziale che chissà per quanto tempo rimarrà in vigore.
Margaret sono famose anche le sue suggestive riprese aeree, una passione che da sempre l’ha vista sorvolare New York e tante altre città. Attualmente sono molto interessanti i suoi esperimenti di fotografia aerea astratta che richiamano molta pittura di questi anni. Ma voglio ricordare anche la ricerca fotografica dei suoi inizi interessata ad altri importanti fotografi come Edward Steichen, pittore che si avvicinò al movimento pittorialista che intendeva elevare la fotografia a livello delle altre arti visuali; László Moholy–Nagy importante figura del Bauhaus anche lui pittore e fotografo, la sua passione per il cinema soprattutto per i film espressionisti russi e tedeschi. Il dominio sulla luce è fondamentale nella sua ricerca sin dagli inizi quando fotografò le acciaierie Otis, da lei considerate più belle di certe strutture architettoniche, che con le sue fornaci hanno messo a dura prova la sua abilità tecnica.
Ricordo lo scorrere dei cavi, le luci diffuse, le lampade al magnesio, giorni e giorni di prove… cercavo qualche cosa che nessuno aveva mai tentato di trovare: volevo rendere quei macchinari, quei congegni meccanici, quelle fornaci delle opere d’arte. Mi arrampicavo sulla scala per scattare il più vicino possibile al metallo fuso e una volta la vernice della macchina fotografica si coprì di vesciche, ho rischiato più volte di arrostirmi ma l’incoscienza della gioventù mi ha portato ad ottenere dei risultati che, per quei tempi e con i pochi mezzi che avevo a disposizione, ancora oggi mi soddisfano appieno. Sviluppavo la pellicola, comprata con i soldi dei lavori che riuscivo a fare di giorno, nel mio lavandino e quanta è finita nella spazzatura! Ma poi un giorno arrivò un rappresentante della Meteor Company con la sua valigia con dodici lampeggiatori al magnesio che avrebbe proposto a Hollywood e che, a dir suo, potevano illuminare anche l’inferno! E hanno illuminato le acciaierie Otis.
Dopo le bellissime foto che immortalano un Marlon Brando nel fulgore del suo fascino, quale sarà il suo prossimo viaggio? E altri progetti per il futuro?
Sto seguendo da tempo la situazione problematica della Corea con la guerra scoppiata due anni fa dopo l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord, una situazione internazionale molto preoccupante. Penso che il mio prossimo viaggio sarà proprio laggiù. Ci rivedremo al mio ritorno augurandomi che nel frattempo la situazione sia migliorata. Avrò senz’altro tanto da raccontare e molte immagini da farle vedere. L’incontro con Marlon Brando è stato piacevole e divertente! Marlon sempre disponibile, sorridente e, naturalmente, fascinosissimo! Per il futuro altre foto, altri viaggi, altri aerei, molta fatica, speriamo poche guerre, tanto entusiasmo e tanti appunti per scrivere la mia storia che ha già un titolo “Il mio ritratto”.
