Quando ormai nel lontano 2016 abbiamo pubblicato il nostro ultimo numero di AWM – la rivista stampata di Artwort – abbiamo deciso di dedicarlo alla città di Napoli, una città complessa e unica, il luogo dove tutto ha avuto inizio e patria di molti di noi.
Questo articolo è estratto dal numero cartaceo AWM#03, pubblicato nel giugno 2016. Abbiamo deciso di renderlo pubblico in seguito ai fatti tristemente noti. Il nostro omaggio a una figura che ha contribuito a modellare la storia di Napoli.
Il testo è di Gianluca Bottiglieri, l’illustrazione è stata realizzata per noi da Flavio Ceriello.
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Esaltazione e riscatto popolare, geniali mosse di marketing e luoghi di culto. Oltre il pallone, c’è dell’altro che lega Napoli a Diego Armando Maradona. E che non sorprende.
“Ci hanno fatto ‘o mazz’ tant pe ‘ll avé”. Ci hanno fatto un culo così per averlo. No. L’introduzione di questo testo non è affidata ad una qualunque citazione di un coro da stadio, nel quale, senza alcun dato scientifico-statistico, si certifica la superiorità manifesta di un campione rispetto ad un altro. E non stiamo nemmeno facendo riferimento al ritornello, ben più noto, della canzone stessa. Molto più semplicemente (o forse no) abbiamo estrapolato una frase che testimonia (più di tante altre sentite, scritte, cantate) un sacrificio. La responsabilità che lega Napoli a Diego Armando Maradona potrebbe essere per alcuni finanche paragonabile a quella che avvinghia Betlemme a Gesù Cristo, L’Avana al Chè, o Johannesburg a Nelson Mandela. Mito? Eroe? Definizioni banali che non rendono a pieno l’idea di come, attraverso un pallone di cuoio, un uomo sia entrato nel tessuto sociale identitario di una città. Dalla porta principale.
Non è una semplice storia di sport ma qualcosa che va oltre; che non si ferma ad una partita, ad un gol. Per i napoletani, aver avuto tra le fila della squadra della propria città quello che è stato il più grande calciatore di tutti i tempi non rappresenta soltanto un motivo di vanto sotto il profilo sportivo, ma richiama soprattutto quel famoso riscatto sociale che controverte tutti i canoni classici di esaltazione popolare: in Maradona i napoletani hanno riscoperto un Masaniello 2.0 venuto da lontano per liberare, o quanto meno distrarre la città, dalle esasperazioni quotidiane, da un disagio sociale radicato. Le magie in campo con la maglia azzurra hanno acceso una città lasciata al buio, bistrattata e per certi versi abbandonata al suo declino. Maradona ha saputo restituire ai napoletani quell’orgoglio perso, per molti, dall’unificazione d’Italia in poi. E lo ha fatto nel modo più semplice possibile: divertendo la gente, non solo i napoletani. Ha rappresentato e tutt’ora rappresenta il più grande sponsor che la città possa vantare in tanti anni di storia. Un culto, una devozione pari quasi a quella per San Gennaro. Del resto bastano anche semplici riferimenti cinematografici come testimoniato da Così parlò Bellavista, un autentico testamento in pellicola del mood partenopeo a cura di Luciano De Crescenzo, in una frase pronunciata da Luigino il Poeta in uno dei suoi tanti momenti d’ispirazione:
San Genna’, non ti crucciare, tu lo sai ti voglio bene. Ma ‘na finta ‘e Maradona squaglia ‘o sanghe dinte vvene! E chest’è!”
(Tradotto: “San Gennaro, non crucciarti, lo sai che ti voglio bene. Ma una finta di Maradona scioglie il sangue nelle vene! E questo è quanto”)
Perché a Napoli, città dalle mille contraddizioni, tutto si può mettere in discussione, tranne che l’amore per Diego. Nessuna confidenza eccessiva. Nella città partenopea quando si parla di Maradona, ogni frase inizia sempre con “Diego”. Uno di famiglia. Dal suo arrivo a Napoli sono passati ben 32 anni. Tre decadi che hanno cambiato per sempre la città. Non si esagera se riteniamo impossibile raccontare il rapporto tra l’idolo e la sua gente in poche righe, ma bastano pochi aneddoti, osservazioni, per poter testimoniare cosa Maradona ha significato e significa tutt’ora per Napoli. Una città che prima dell’arrivo del calciatore argentino, dalle tenebre di un periodo buio, riemerge con il post-Maradona. In tanti hanno imparato a conoscere
– “Da dove vieni?”
– “Napoli”
– “Ah Napoli…Maradona!”
Quello per Maradona è un amore particolare, difficile da raccontare. Parlando di sacrificio, in sette anni migliaia di napoletani hanno assistito ad ogni allenamento del Pibe de Oro con religiosa costanza. Forse senza eguali in altre città del mondo. In quegli anni le scuole partenopee hanno fatto registrare forse il più alto numero di assenze non giustificate da parte dei suoi alunni. Tutto a causa del cosiddetto “filone”, organizzato giorni e giorni prima per poter acquistare il biglietto della Circumvesuviana e recarsi a Soccavo al mattino per assistere alle magie del prodigio argentino anche sul campo di allenamento. E ancora matrimoni e comunioni posticipati dopo maggio, a fine campionato, pur di non incappare in una domenica diversa dal solito. Una domenica senza Maradona. La passione positiva che sfocia talvolta in odio: in un’intervista concessa al Guerin Sportivo, nel 1985, alla domanda: “Che tu sappia, in mezzo a tanta gente che stravede per te, c’è anche qualcuno che non ti sopporta? Forse i mariti traditi?”, Maradona rispose: “Ma no: caso mai le mogli gelose. Gelose perché i rispettivi compagni sono più innamorati del calcio e di Maradona che non di loro”.
La Maradona-mania a Napoli era già scoppiata prima del 1986, anno del primo scudetto della storia della squadra azzurra. E in una città sempre al passo con i tempi, che di scaltrezza e originalità ha sempre fatto un marchio facilmente riconoscibile della sua identità, non potevano mancare astute mosse di marketing atte a trasmettere un’adrenalina sociale difficilmente spiegabile: in tanti ricorderanno, tra immagini sbiadite e vecchi filmati, la moltitudine di parrucche ricce nere che affollavano strade e stadio. Un carnevale quotidiano che coinvolgeva bambini, adolescenti, adulti, finanche anziani. Capodanno invece, era l’occasione giusta per lanciare i “Palloni” o meglio ancora “le bombe di Maradona”, nomi di battesimo per fuochi d’artificio di ogni genere e costo. Marketing misto ad un’opera di culto che ha dell’incredibile, come nel caso dell’ormai celebre altarino di San Biagio dei Librai, sul quale è posto sotto vetro una ciocca di capelli di Maradona, adagiatasi sul poggiatesta di un aereo in uno dei tanti viaggi di Diego in giro per l’Italia e per il Mondo. Un’attrazione unica che ha attirato negli anni milioni e milioni di turisti nel Bar Nilo, promotore dell’iniziativa. Le testimonianze dell’amore di Napoli per Maradona non si fermano a questo. Al di là dell’enormità di raffigurazioni presenti nelle viuzze del centro storico, tra pastori da presepe, calamite turistiche, adesivi con il suo volto attaccate su ogni scooter, cartoline e soprattutto migliaia di fotografie appese in qualsiasi esercizio commerciale, basta spostarsi un po’ più a Sud, verso i Quartieri Spagnoli, per poter ammirare l’ennesimo tributo di una popolazione mai sazia di omaggiare il suo idolo: un murales alto quanto la facciata di un palazzo di sei piani, in Via Emanuele De Deo, raffigurante in versione “cartoon” del Pibe de Oro. Un’opera realizzata nel 1990, in occasione del secondo scudetto, grazie alla fantasia di Mario Filardi, e recentemente restaurato da Salvatore Iodice. L’inaugurazione 2.0 è stata celebrata con una festa sprezzante di colori, musica e affetto ai piedi del murales. Ma questo, ovviamente, non sorprende. Dove c’è Maradona (in qualsiasi modo egli sia raffigurato, ricordato, menzionato), c’è festa. Entusiasmo contagioso, passione irrefrenabile. D10s, come lo definiscono i più blasfemi dei tifosi azzurri, ha fatto breccia nell’animo di una città, influenzandola persino nelle espressioni di uso popolare, nella quotidianità degli scugnizzi che giocano per strada, e che all’amico che tenta un numero improbabile con il pallone gridano contro: “È arrivato Maradona”. Eh no. Certe cose a Napoli sono permesse solo a lui. Ed è anche per questo forse, che la società azzurra, in tempi non recenti, ha deciso di ritirare la sua numero 10 vietando a qualsiasi altro giocatore di indossarla. Una forma di rispetto, e soprattutto di gratitudine, verso chi ha scritto momenti di storia indelebili, ma soprattutto verso chi ha riportato Napoli al centro del mondo da più di 30 anni. Passati gli anni, resta per pochi il privilegio di aver assistito al miracolo socio-culturale, una rivoluzione partita dallo sport in una città mai sazia di pane e Maradona.